In archeologia, nello specifico in paleoantropologia, sono le ossa a raccontare le caratteristiche della vita del passato attraverso un gran numero di indizi. I denti, poi, sono uno scrigno di informazioni che aspettano solo di essere rivelate. Come ho già evidenziato tante volte, questi ambiti di ricerca hanno una grandissima vocazione multidisciplinare e la contaminazione tra tanti punti di vista porta spesso a sorprendenti nuove teorie. Come quella pubblicata recentemente su Science, una ricerca che ha collegato proprio l’analisi degli scheletri fossili con la linguistica e la biologia evolutiva per svelare che progresso tecnologico, alimentazione e sviluppo del linguaggio sono strettamente connessi.
In archeologia, nello specifico in paleoantropologia, sono le ossa a raccontare le caratteristiche della vita del passato attraverso un gran numero di indizi. I denti, poi, sono uno scrigno di informazioni che aspettano solo di essere rivelate. Come ho già evidenziato tante volte, questi ambiti di ricerca hanno una grandissima vocazione multidisciplinare e la contaminazione tra tanti punti di vista porta spesso a sorprendenti nuove teorie. Come quella pubblicata recentemente su Science, una ricerca che ha collegato proprio l’analisi degli scheletri fossili con la linguistica e la biologia evolutiva per svelare che progresso tecnologico, alimentazione e sviluppo del linguaggio sono strettamente connessi.
Dovremmo essere abituati all’idea che le lingue siano qualcosa di estremamente fluido, soggetto a una miriade di influenze. Eppure c’è un’aura di stupore – e in parte anche di diffidenza – che aleggia sui risultati dell’indagine svolta dagli scienziati dell’Università di Zurigo, del Max Planck Institutes, dell’Università di Lione e della Nanyang Technological University di Singapore. Secondo i dati raccolti i cambiamenti nella dieta degli esseri umani, dovuti al passaggio dall’essere cacciatori-raccoglitori a un’economia basata su agricoltura e allevamento, avrebbero portato a delle modificazioni della posizione dei denti che avrebbe permesso di introdurre suoni quali la lettera f e la v, consonanti dette labiodentali, nelle parole.
Questa tesi non è del tutto nuova: nel 1985 il linguista Charles Hockett suggerì che l’impiego di denti, mascelle e mandibole nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori, che si nutrivano di cibi più duri, rendeva difficile la pronuncia dei suoni “f” e “v” e pensò che dovessero essere una innovazione più recente del linguaggio umano. Una supposizione che ha sicuramente pungolato la curiosità dei ricercatori che, con gli strumenti a disposizione oggi, hanno esaminato con attenzione migliaia di linguaggi, hanno testato differenti configurazioni dell’apparato che impieghiamo per parlare mediante simulazioni al computer, con modelli biomeccanici, e hanno passato i dati alla lente di ingrandimento di discipline quali la paleoantropologia, la linguistica le scienze del linguaggio e la biologia evolutiva.
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Ebbene, Hockett non aveva torto: mangiare cibi più morbidi, prodotti e lavorati (ad esempio cotti a lungo o macinati) grazie ai progressi tecnologici legati all’agricoltura, ha modificato la dentatura degli esseri umani e la loro abilità nel pronunciare le consonanti labiodentali, quelle per cui è necessario che gli incisivi superiori poggino sul labbro inferiore. I cibi molto fibrosi, non cotti e non lavorati, richiedevano un morso in cui l’arcata superiore e quella inferiore erano allineate, conformazione che veniva acquisita con i denti definitivi, in età adulta. Consumando cibi più teneri, gli esseri umani hanno iniziato a mantenere la configurazione dei denti da latte in cui la parte superiore era leggermente in avanti rispetto a quella inferiore, permettendo così la pronuncia delle labiodentali.
Il dibattito su queste conclusioni è alquanto vivace perché coinvolge anche riflessioni riguardanti lo sviluppo del nostro cervello. La conformazione del cranio si è modificata mangiando alimenti più morbidi e, a questo punto, ci si chiede se i cambiamenti nel linguaggio siano arrivati prima o dopo quelli del cervello. È criticata anche l’assenza nello studio della valutazione di fattori sociali, culturali e cognitivi, o ancora, alcuni ricercatori sono molto preoccupati per una eventuale manipolazione etnocentrica di queste informazioni, che di fatto legano le differenze nelle lingue ad aspetti fisici e biologici e si prestano a pericolosi giudizi di valore sulle lingue stesse.
È comunque affascinante pensare che vi sia stata un’evoluzione anche nei suoni dei linguaggi passati. Balthasar Bickel, coautore dell’articolo apparso su Science, ha commentato: “I nostri risultati fanno luce sui complessi collegamenti causali tra pratiche culturali, biologia umana e linguaggio. Sfidano anche la supposizione comune che, quando si tratta di linguaggio, il passato suoni proprio come il presente”.
Credits immagine di copertina: foto di Sipa da Pixabay
