Prima delle festività natalizie abbiamo cominciato ad affrontare una nuova materia, la geoarcheologia, lo studio del territorio del passato, con il suo bagaglio di indizi riguardanti le interazioni tra Uomo e paesaggio. Una delle principali discipline adoperate in questo ambito è la micromorfologia. Cosa si nasconderà mai dietro questa strana parola? Continuate a leggere e lo scopriremo insieme.
Fonte: http://climatechange.umaine.edu/Research/MaineClimate/Archaeology.html . L’immagine rappresenta una sezione stratigrafica di un sito nella Penobscott Valley (Stati Uniti). La freccia indica un suolo correlato ad un periodo di siccità. (la foto è stata scattata da Steve Bicknell della University of Maine).
Prima delle festività natalizie abbiamo cominciato ad affrontare una nuova materia, la geoarcheologia, lo studio del territorio del passato, con il suo bagaglio di indizi riguardanti le interazioni tra Uomo e paesaggio. Una delle principali discipline adoperate in questo ambito è la micromorfologia. Cosa si nasconderà mai dietro questa strana parola? Continuate a leggere e lo scopriremo insieme.
La micromorfologia archeologica è una tecnica presa in prestito dalla pedologia – lo studio dei suoli, ossia la parte più superficiale della crosta terrestre – che si occupa dell’osservazione e dell’interpretazione di sedimenti e suoli archeologici al microscopio. Consente di valutare l’origine dei componenti dei campioni raccolti, siano essi di natura organica o minerale, la loro organizzazione spaziale, la struttura del terreno, la presenza di elementi indicativi di determinati processi. Quando associata alla descrizione del terreno e alle altre metodologie di laboratorio, questa tecnica permette di dedurre informazioni sull’ambiente di formazione del deposito archeologico, sugli agenti e i meccanismi responsabili della sua genesi e sulle eventuali modificazioni avvenute dopo la sua deposizione, ad opera di fenomeni naturali o antropici.
In una manciata di suolo si possono nascondere tantissime informazioni: pollini, semi, composti chimici possono raccontarci tanto dell’utilizzo di una determinata area all’interno di un insediamento archeologico. Curiosissimo è lo studio dei coproliti, escrementi fossili cui forma ci permette di risalire all’animale che lo ha espulso. I ricercatori riescono così a ricostruire quella che è stata la vita quotidiana degli uomini vissuti in un determinato luogo e a comprendere come essi abbiano influenzato il naturale sviluppo del paesaggio.
Ma quali strumenti e tecnologie sono adoperate per analizzare il suolo? La microscopia ottica, quella elettronica a scansione ma anche tecniche analitiche applicabili sul campione “sciolto” (non compatto) come la diffrazione ai raggi X.
Cosa possiamo scoprire di uno scavo? Ad esempio se un determinato luogo è stato abbandonato in un certo periodo storico, se ne è mutata la destinazione d’uso – da area coltivata a urbanizzata o adibita ad allevamento di animali – , o ancora si possono studiare strati che ad una prima analisi archeologica non ci regalano molte informazioni ma che, sotto l’occhio attento dei micromorfologi, possono nascondere la chiave di volta della storia di una regione.