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10 Giu 2019

Quando la luce è nemica del colore

Alessia Colaianni

Alessia Colaianni
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Quando stendiamo il bucato al sole poniamo sempre molta attenzione a non lasciarlo esposto per giorni, questo perché la luce modifica il colore dei capi che, nelle aree maggiormente illuminate, si schiarirebbe. La stessa cosa, in modalità diverse, succede ai pigmenti di opere d’arte esposte all’illuminazione museale. Nonostante l’avvento delle lampade a LED, i danni da fenomeni fotochimici sono sempre dietro l’angolo.

Quando stendiamo il bucato al sole poniamo sempre molta attenzione a non lasciarlo esposto per giorni, questo perché la luce modifica il colore dei capi che, nelle aree maggiormente illuminate, si schiarirebbe. La stessa cosa, in modalità diverse, succede ai pigmenti di opere d’arte esposte all’illuminazione museale. Nonostante l’avvento delle lampade a LED, i danni da fenomeni fotochimici sono sempre dietro l’angolo.

 

Regolare le condizioni di un ambiente espositivo è molto complesso: temperatura, umidità, particolato atmosferico (inquinanti annessi) e luce sono i fattori che causano il deterioramento dei manufatti conservati, ma difficilmente i valori ideali saranno quelli adottati. È necessario trovare un compromesso tra la salute dell’opera e la presenza dei visitatori.

 

Un tempo erano impiegate le lampade alogene ma l’emissione di calore, il consumo energetico inefficiente e la radiazione ultravioletta indesiderata (gli UV causano modificazioni irreversibili e sono una terribile minaccia per i materiali di natura organica) le rendeva in realtà incompatibili con gli obiettivi dei conservatori. Sono poi arrivati i LED (Light Emitting Diodes – Diodi a Emissione di Luce): non emettono nella regione degli UV (lunghezze d’onda minori di 400 nanometri) e nell’infrarosso (lunghezze d’onda maggiori di 760 nanometri) e hanno una potenza radiante (energia totale di radiazione elettromagnetica emessa, riflessa, trasmessa o ricevuta, da una sorgente o da una determinata superficie per unità di tempo) alta in uno specifico intervallo di lunghezze d’onda. La maggior parte dei LED hanno questo picco nel blu (a circa 430-470 nanometri) e uno un po’ più slargato nella regione che va dal verde al rosso (circa 600 nanometri).

 

E se anche queste radiazioni alterassero determinati materiali? L’imbrunimento del brillante giallo cromo dei dipinti di Vincent Van Gogh, tra cui i suoi celebri girasoli, misero in guardia nel 2013 un gruppo di ricercatori che, con esperimenti sul processo di degradazione del pigmento e successive misurazioni, hanno scovato il colpevole: proprio una radiazione blu, tra i 335 e i 525 nanometri. I LED non sono quindi così sicuri e i pigmenti, che siano di origine naturale o prodotti per sintesi, sono sicuramente i primi a soffrire di questo problema.

 

Si chiama lightfastness la capacità di un pigmento di resistere immodificato all’azione degradativa della luce. Questa proprietà dipende non solo dalla natura chimica del pigmento ma anche dalla sua concentrazione e dal legante impiegato per dipingere a seconda della tecnica adoperata, ad esempio acquerello, olio, tempera o acrilico.

 

La permanenza è una caratteristica fondamentale perché l’intervallo di tempo in cui il pigmento rimane inalterato è la misura dell’aspettativa di vita di un’opera d’arte. E se la lightfastness ora segue degli standard dettati dalle classificazioni di organizzazioni che controllano la qualità come l’ASTM-American Society for Testing and Materials standard (su tubetti di colori a olio o godet di acquerelli troverete indicazioni specifiche sulla permanenza), per i colori del passato la questione si fa molto più difficile. È per questo che è necessario iniziare a testare anche i LED, per comprendere dove possono causare danni, in quale misura e per quali lunghezze d’onda.

 

Lightfastness CeruleanBlu

 

In fotografia un esempio di indicazione di lightfastness per i materiali artistici di oggi. Il godet di acquerello di questo particolare blu ha una valutazione pari a I, dove ASTM I indica una resistenza eccellente, ASTM II molto buona e ASTM III una permanenza insufficiente affinché il colore possa essere impiegato da un artista.

 

In una ricerca recentemente pubblicata nella rivista Journal of Cultural Heritage, sono stati analizzati gli effetti dell’illuminazione a LED su pigmenti tradizionali dell’arte coreana: i pigmenti sono stati stesi su carta ed sottoposti alla luce dei LED in una camera progettata appositamente per lo sbiadimento accelerato, simulando l’effetto di lunghi periodi di esposizione. Il pigmento maggiormente colpito si è mostrato il Wunghwang, quello che in occidente conosciamo come realgar, un bisolfuro di arsenico (As2S2) dai toni giallo-rossastri. Osservazioni sull’illuminazione a LED, verificata per valori di tempo e lunghezze d’onda combinati, hanno mostrato che la radiazione blu con energia più alta nella regione del visibile induce una decolorazione dovuta all’azione della luce e che l’emissione nel verde può portare anche a danni maggiori per tempi più lunghi. Il pigmento subisce una trasformazione a livello atomico, dato confermato dalle analisi con la spettroscopia Raman e la diffrazione di raggi X. Non ci si può quindi fidare a scatola chiusa dei LED e bisognerebbe sempre testarli per calibrare il loro irraggiamento a seconda delle esigenze, prendendo in considerazione la tipologia di oggetti in esposizione.

 

La luce del sole, invece, non può essere regolata quindi ricordatevi di non lasciare troppo a lungo fuori i vostri vestiti preferiti.

 

Credits immagine di copertina: foto di Michael Püngel da Pixabay

Alessia Colaianni
Alessia Colaianni
Giornalista pubblicista, si è laureata in Scienza e Tecnologia per la Diagnostica e Conservazione dei Beni Culturali e ha un dottorato in Geomorfologia e Dinamica Ambientale. Divulga in tutte le forme possibili e, quando può, insegna.
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