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28 Gen 2019

Rembrandt, i minerali di piombo e la pittura a impasto

Alessia Colaianni

Alessia Colaianni
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Un pittura resa vibrante non solo dal sapiente chiaroscuro ma anche dall’uso del colore, così materico da svettare dalla superficie del dipinto e conferire all’opera un senso di profondità che si era potuto ammirare, in precedenza, solo in Tiziano. È Rembrandt l’artista a cui mi sto riferendo e la ricetta della sua tecnica a impasto è trapelata, in parte, dalle analisi effettuate presso l’ESRF (European Synchrotron Radiation Facility), l’acceleratore di particelle di Grenoble, in Francia.

Un pittura resa vibrante non solo dal sapiente chiaroscuro ma anche dall’uso del colore, così materico da svettare dalla superficie del dipinto e conferire all’opera un senso di profondità che si era potuto ammirare, in precedenza, solo in Tiziano. È Rembrandt l’artista a cui mi sto riferendo e la ricetta della sua tecnica a impasto è trapelata, in parte, dalle analisi effettuate presso l’ESRF (European Synchrotron Radiation Facility), l’acceleratore di particelle di Grenoble, in Francia.

 

Rembrandt van Rijn (Leida 1606 – Amsterdam 1669) è stato uno dei pittori più significativi di quello che viene definito il Secolo d’oro olandese, il Seicento, un periodo in cui i Paesi Bassi primeggiarono in numerosi ambiti tra cui il commercio, la scienza (un fulgido esempio è il lavoro del fisico, matematico e astronomo Christiaan Huygens) e, per l’appunto, l’arte. Una delle peculiarità delle tele dell’artista risiede nella stesura del colore: non campiture sottili e uniformi ma pennellate ricche di materia, tanto da donare all’occhio dell’osservatore un effetto quasi tridimensionale che illumina i soggetti, riflettendo meglio la luce. Quali materiali impiegava Rembrandt per la sua tecnica a impasto? Ispirata probabilmente dal rapporto con la stesura del pigmento del tardo Tiziano, vissuto circa due secoli prima, per questa preparazione il pittore doveva aver adoperato necessariamente gli ingredienti a disposizione sul mercato olandese nel XVII secolo, ossia i pigmenti bianchi a base di piombo: idrocerussite e cerussite – carbonati di piombo ottenuti artificialmente dalla corrosione del piombo metallico in vapori di acido acetico e in condizioni ricche di anidride carbonica – mescolate con una piccola quantità olio di lino, il legante che avrebbe permesso alle particelle minerali di essere stese sulla superficie da dipingere.

 

Qual era la ricetta precisa seguita da Rembrandt per ottenere quella specifica tessitura della superficie pittorica? Per scoprirlo gli scienziati hanno analizzato i campioni di strato pittorico prelevati dal Ritratto di Marten Soolmans del Rijksmuseum (Amsterdam), dalla Susanna conservata al Mauritshuis (L’Aia) e da Bestabea con la lettera di David, esposta presso il Museo del Louvre di Parigi, tre dei capolavori dell’artista. La radiazione di sincrotrone prodotta dall’acceleratore di particelle del ESRF ha permesso di esaminare, mediante delle tecniche specifiche quali la diffrazione di raggi X ad alta risoluzione angolare e la micro-diffrazione di raggi X, frammenti di soli 0,1 millimetri, ricavandone informazioni sulla struttura, composizione, quantità e posizione dei cristalli presenti.

 

L’ingrediente segreto per ottenere l’effetto impasto era la plumbonacrite (Pb5(CO3)3O(OH)2), un minerale piuttosto raro nella storia delle tecniche artistiche, ritrovato per ora solo in alcuni dipinti del XX secolo e in un rosso piombo degradato proveniente da un’opera di Van Gogh. Victor Gonzales, autore dell’articolo che parla di questa ricerca – pubblicato su Angewandte Chemie – e scienziato presso la Rijksmuseum and Delft University of Technology, ha spiegato: “Non ci aspettavamo assolutamente di trovare questa fase, poiché è così insolita nei dipinti dei grandi maestri. Per di più, la nostra ricerca mostra che la sua presenza non è accidentale o dovuta a contaminazioni ma è il risultato di una sintesi intenzionale”.

 

Marine Cotte dell’ESRF, coautrice dello studio, ha aggiunto: “La presenza di plumbonacrite è indicativa di un medium alcalino. Basandoci sui testi storici, crediamo che Rembrandt abbia aggiunto ossido di piombo (litargirio) all’olio a questo scopo, trasformando il mix in un colore dalla consistenza pastosa”. Sembra, infatti, che il litargirio mescolato con l’olio cotto (olio di semi di lino riscaldato) agisse da reagente basico (da qui l’ambiente alcalino in cui si sarebbe formata la plumbonacrite) e creasse un composto denso, che si asciugava facilmente, senza dare origine a screpolature della superficie pittorica (dette craquelure).

 

Proprio come una rondine non fa primavera, tre opere analizzate non bastano per cristallizzare in una ricetta il modus operandi di un artista e, quindi, non possiamo ancora affermare che il pittore usasse sistematicamente la plumbonacrite per la sua tecnica a impasto. Questa, per ora, rimane solo un’ipotesi che andrà confermata dalle ricerche già in atto su altri dipinti di Rembrandt e di maestri olandesi del XVII secolo, incluso Jan Vermeer.

 

Immagine di copertina: Betsabea con la lettera di David (1654), olio su tela di Rembrandt van Rijn, conservato nel Museo del Louvre di Parigi (modif.). Credits: Philippe Hupé [CC BY-SA 3.0], via Wikimedia Commons

Alessia Colaianni
Alessia Colaianni
Giornalista pubblicista, si è laureata in Scienza e Tecnologia per la Diagnostica e Conservazione dei Beni Culturali e ha un dottorato in Geomorfologia e Dinamica Ambientale. Divulga in tutte le forme possibili e, quando può, insegna.
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