Il distinto signore indiano che vedete in foto ha vinto il Premio Nobel per la Fisica nel lontano 1930 per le sue ricerche riguardanti la diffusione della luce. Il suo nome è Venkata Raman e si deve a lui la scoperta dell’omonimo fenomeno fisico. Ancora tecniche diagnostiche, ancora storie di pigmenti. Oggi parliamo della spettroscopia Raman, una tecnica non distruttiva, superficiale (analizza strati spessi pochi micron, meno del diametro di un capello), basata sull’interazione radiazione-materia.
Il distinto signore indiano che vedete in foto ha vinto il Premio Nobel per la Fisica nel lontano 1930 per le sue ricerche riguardanti la diffusione della luce. Il suo nome è Venkata Raman e si deve a lui la scoperta dell’omonimo fenomeno fisico. Ancora tecniche diagnostiche, ancora storie di pigmenti. Oggi parliamo della spettroscopia Raman, una tecnica non distruttiva, superficiale (analizza strati spessi pochi micron, meno del diametro di un capello), basata sull’interazione radiazione-materia.
In genere un fascio di luce che incide su un campione lo attraversa senza subire modifiche o viene assorbito a seconda della lunghezza d’onda della radiazione e della natura del materiale in questione. Vi sono poi i fenomeni di diffusione, lo “sparpagliamento” che un fascio di onde elettromagnetiche o di particelle subisce nell’attraversare un mezzo in virtù delle interazioni con le particelle di quest’ultimo. Una piccola parte del fascio incidente viene diffusa elasticamente, ossia con la medesima frequenza: questo è l’effetto Rayleigh che, per capirci, è quello che fa apparire il cielo blu. Una percentuale minore di luce subisce una diffusione anelastica e questo è l’effetto Raman: il fascio è diffuso con una frequenza più alta o più bassa di quella originaria. La radiazione prodotta dalla diffusione Raman è registrata e di seguito viene elaborato un grafico di lunghezze d’onda in funzione dell’intesità. Questo spettro è associabile a un’unica molecola e costituisce una vera e propria impronta digitale.
Le applicazioni sono numerose, infatti, si va dalla caratterizzazione di pigmenti, coloranti e leganti a quella di superfici ceramiche, materiali lapidei, sostanze organiche di varia natura, per arrivare anche all’identificazione di prodotti di degrado su superfici pittoriche, vetri, ceramiche, metalli e rocce.
Un caso di studio curioso è l’identificazione mediante analisi Raman dei pigmenti applicati alla statua policroma di Sant’Anna in Santa Maria la Real (XIII secolo), a Sasamon, in Spagna.
Fonte: http://pubs.rsc.org/en/content/articlelanding/2004/an/b407167k#!divAbstract Particolare della statua policroma di Sant’Anna, conservata nella chiesa di Santa Maria la Real, in Spagna
Oltre alla calcite del corpo della statua, al gesso come strato preparatorio per il colore, al cinabro e minio per i rossi, ai composti organici per i leganti e per la rifinitura della decorazione, è stato possibile riscoprire un “pigmento dimenticato”: l’oro musivo, bisolfuro di stagno, SnS2, prodotto artificialmente, adoperato al fine di imitare l’oro con un prodotto meno costoso.
Fonte: http://www.hqgraphene.com/PeriodicTableElements/Sn.php Campione di bisolfuro di stagno
Conosciuto dagli alchimisti in quanto i suoi cristalli gialli somigliavano all’oro, è citato nel De Arte Illuminandi, un ricettario del XIV secolo e, ancora prima – circa mille anni addietro – in testi alchemici cinesi. Nonostante l’oro musivo fosse popolare in epoca medievale e rinascimentale, a differenza degli altri “gialli”, il suo utilizzo è raramente riportato nei testi più recenti riguardanti i materiali pittorici antichi, come se si trattasse di un pigmento dimenticato.
Così la spettroscopia Raman, in questo caso, ci ha permesso di ricordare una piccola ma preziosa parte della storia delle tecniche artistiche e, in fondo, dei primi passi della chimica!
