Siamo finalmente giunti al post dedicato al caso di studio. Il reperto più famoso e controverso datato con il metodo del radiocarbonio è la Sacra Sindone di Torino, il lenzuolo di lino che si suppone abbia avvolto il corpo di Cristo. Tanto è stato scritto e raccontato su questa reliquia ma ciò che c’è davvero di interessante è che questa ricerca è stata una finestra sul metodo scientifico per molti.
Giovanni Battista Maggi (183..-18..), “Torino – Cappella Regia (Cappella Reale del Duomo), SS. Sudario. Numero di catalogo: 34.
Siamo finalmente giunti al post dedicato al caso di studio. Il reperto più famoso e controverso datato con il metodo del radiocarbonio è la Sacra Sindone di Torino, il lenzuolo di lino che si suppone abbia avvolto il corpo di Cristo. Tanto è stato scritto e raccontato su questa reliquia ma ciò che c’è davvero di interessante è che questa ricerca è stata una finestra sul metodo scientifico per molti.
La Sindone di Torino, un lenzuolo lungo 4,36 metri e largo 1,11 metri che reca impressa un’impronta umana attribuita a Gesù, è stata mostrata la prima volta a Lirey, in Francia, nel 1350 ed è successivamente passata nelle mani del Duca di Savoia. Dopo numerosi viaggi fu portata a Torino nel 1578 dove, nel 1694, è stata conservata, in un’apposita teca, nella Cappella del Guarini, all’interno del Duomo.
Con il progredire delle tecniche di analisi questo reperto, il quale richiedeva prudenza nel campionamento come nell’analisi per il forte significato che si sarebbe in seguito conferito al risultato, fu messo a disposizione per le indagini scientifiche ossia per stabilirne l’autenticità. I primi esami risalgono al 1969, anni nei quali non si poté procedere con il radiocarbonio a causa dell’ingente quantitativo di materiale necessario per un campionamento risolutivo (ben 500 cm2 di stoffa, un danno impensabile per qualsiasi tipo di bene culturale). Nel 1973, finalmente, il progetto di datazione divenne possibile.
Naturalmente, per l’eccezionalità dell’oggetto e per l’attenzione che il mondo intero avrebbe riposto nella datazione, tutto fu pianificato in maniera tale che non ci fossero margini di errore relativi alle procedure adoperate per giungere al risultato. Dopo una prima prova con alcuni campioni forniti dal British Museum per testare la fattibilità della datazione e del confronto dei dati tra differenti laboratori si procedette con un incontro per stabilire il protocollo da seguire nelle varie fasi delle analisi.
Nell’ottobre del 1987 furono selezionati dall’allora Arcivescovo di Torino e Custode Pontificio della Sindone, Anastasio Ballestrero, i tre laboratori che avrebbero effettuato l’esame: i centri di eccellenza di Oxford (Regno Unito), Zurigo (Svizzera) e Tucson (Arizona, USA). Nello stesso periodo il British Museum fu invitato a collaborare per la certificazione dei campioni forniti e l’analisi statistica dei risultati. Le procedure di raccolta dei campioni e il trattamento dei dati furono discussi dai rappresentanti dei tre laboratori in un incontro sempre presso il British Museum, avuto luogo nel gennaio 1988 e, in seguito, avvalorate anche dall’Arcivescovo.
I tre laboratori ricevettero 4 campioni di cui 3 erano frammenti di beni di età nota e solo uno era stato prelevato dalla Sindone. I contenitori che li conservavano non riportavano indicazione della provenienza per evitare pregiudizi da parte degli operatori.
Si procedette quindi con la rimozione di contaminazioni, la preparazione dei campioni, la misura del radiocarbonio contenuto, la calibrazione delle date ottenute e i trattamenti statistici. Lo studio affermò che la Sindone risale ad un periodo compreso tra il 1260 e il 1390 d. C. Il lino del manufatto è medioevale. Questa la risposta della scienza, spiegata in un asciutto e chiaro articolo pubblicato sul Nature nel febbraio del 1989. Nessun mistero, nessun errore dimostrato da una altrettanto attenta indagine. Del resto lo stesso Arcivescovo Ballestrero affermò: “Penso non sia il caso di mettere in dubbio i risultati. E nemmeno il caso di rivedere le bucce agli scienziati se il loro responso non quadra con le ragioni del cuore”. A noi rimane un interessante falso storico che ci racconta storie di contraffazioni di reliquie e di tecniche artigiane atte a far questo.
Concludo citando un brano de “Il nome della rosa” di Umberto Eco. Adso e Guglielmo parlano dell’inesistenza dell’unicorno: “Di fronte a un libro non dobbiamo chiederci cosa dica ma cosa vuol dire […] L’unicorno così come ne parlano questi libri cela una verità morale, o allegorica, o anagogica, che rimane vera […] La lettera deve essere discussa, anche se il sovrasenso rimane buono.”