Questa settimana, nell’ambito degli appuntamenti legati alle intersezioni tra arte e scienza, ho intervistato Matteo Farinella. Laureato in biologia, dopo una laurea specialistica in neurobiologia e un dottorato in neuroscienze alla UCL – University College of London, Matteo è riuscito a unire la sua passione per il disegno e la sua professionalità in campo scientifico in un percorso di divulgazione scientifica molto particolare.
Questa settimana, nell’ambito degli appuntamenti legati alle intersezioni tra arte e scienza, ho intervistato Matteo Farinella. Laureato in biologia, dopo una laurea specialistica in neurobiologia e un dottorato in neuroscienze alla UCL – University College of London, Matteo è riuscito a unire la sua passione per il disegno e la sua professionalità in campo scientifico in un percorso di divulgazione scientifica molto particolare.
Quando disegno, biologia e neuroscienze si sono incrociati nel tuo percorso professionale?
Ci è voluto un bel po’. A dir la verità ho sempre disegnato, sin da bambino, infatti la mia risposta preferita a questa domanda è “Quando avete smesso voi di disegnare?”. Tutti i bambini disegnano, è una cosa naturale, ma a un certo punto ci dicono che scrivere è un mezzo di comunicazione “più serio” mentre il disegno può essere un passatempo o un’arte. Io non ho mai smesso di credere che anche il disegno fosse un modo per comunicare con una propria dignità e questo è il motivo per cui, probabilmente, sono sempre stato attratto dal fumetto. Se ci pensiamo quest’ultimo ha molto più a che fare con la scrittura e i diagrammi rispetto a quelle che sono definite “belle arti”. Inoltre, non è detto che si debba essere particolarmente dotati nel disegno per realizzare un fumetto: ciò che veramente importa è come organizzare l’informazione.
Ho sempre disegnato e letto fumetti ma, proprio perché ho sempre associato questo mondo alla pura creatività piuttosto che alla trasmissione di informazioni, ho preferito scegliere l’ambito scientifico per i miei studi. Quindi, in realtà, ho cominciato a fare le due cose in parallelo finché, verso la fine del mio dottorato, a 28 anni, ho iniziato a interessarmi alla divulgazione scientifica e ho pensato che il disegno potesse essere questo. Ed è arrivata finalmente l’occasione per combinare le due cose.
Come è nato Neurocomic, il tuo primo progetto?
Ero all’ultimo anno del dottorato e ho incontrato una collega – poi diventata mia coautrice – Hana Ros, anche lei scienziata, unitasi al mio gruppo di ricerca per un post-doc. È stata lei la prima che, quando ha scoperto che disegnavo fumetti, non lo ha considerato come un semplice hobby ma mi ha incoraggiato a usare questo mio talento per fare divulgazione. Mi ha suggerito di inviare una domanda di finanziamento al Wellcome Trust, una fondazione privata inglese che, in Gran Bretagna, è una delle più grosse fonti di sovvenzionamento per la ricerca scientifica. Tra i vari settori supportabili dalla fondazione c’è anche quello dedicato alla divulgazione. Abbiamo richiesto e ottenuto 20.000 sterline, una borsa di studio abbastanza esigua rispetto alle cifre solitamente investite per la ricerca di base. Per noi, invece, è stata veramente la svolta: un po’ perché ci ha permesso di dedicarci più seriamente e per maggior tempo a questo progetto che prevedeva la realizzazione di un fumetto sulle neuroscienze, un po’ perché – secondo me – è quello che ci ha dato rispettabilità, credibilità, agli occhi degli altri scienziati. Non ero più un dottorando che disegnava fumetti: avevamo una borsa della Wellcome Trust! Quindi ho iniziato a lavorare con Hana al libro verso la fine del dottorato, è stato pubblicato dopo la discussione della mia tesi e, fin da subito, ha riscosso un gran successo. A quel punto per me la scelta era cercare un post-doc o dedicarmi alla divulgazione attraverso i fumetti: un’occupazione che, fino a qualche mese prima, non avrei mai sognato potesse essere un lavoro ma che poi, grazie a questa serie di coincidenze, non sembrava più così folle.
Una delle pagine di Neurocomic (Nobrow, 2013)
Ora invece sei alla Columbia University di New York. Di cosa ti stai occupando?
A partire da Neurocomic, sono stato un libero professionista, ho disegnato altri due libri (Cervellopoli e The Senses) e realizzato altre illustrazioni. Mi sono un po’ inventato questa carriera come fumettista scientifico. Però, per non lasciare del tutto il mondo accademico, dopo essermi trasferito a New York, ho cercato l’opportunità di combinare i due percorsi. Esiste un nuovo programma alla Columbia University (allora era appena iniziato): è un post-doc di tre anni in “Society and Neuroscience” (Società e Neuroscienza) che ha come perno il legame tra società, arti e neuroscienze. Io ho presentato domanda con un lavoro basato sullo studio sistematico di come l’educazione scientifica visiva possa influenzare l’apprendimento, la percezione e il coinvolgimento del pubblico. L’obiettivo è capire l’efficacia dei fumetti in confronto agli articoli di divulgazione così come ora vengono presentati dalle maggiori riviste e riuscire a quantificare il numero e la tipologia di persone che fruiscono dell’uno o dell’altro canale. È una ricerca più legata alla psicologia e alle scienze sociali. Potrebbero essere dati, prove concrete del ruolo che può rivestire un fumetto: non solo un passatempo per grandi e piccoli ma anche un mezzo utile nell’educazione scientifica.
Una delle pagine di The Senses (Nobrow, 2017)
Tu ti definisci un fumettista scientifico. Quali sono le differenze nella fase di realizzazione di un fumetto di questo tipo, confrontandole con quelle di un altro illustratore?
In realtà ci sono più similitudini tra fumetto e illustrazione scientifica di quelle che possiamo immaginare. Però il fumetto ha una struttura, un layout della pagina, più simile a un diagramma scientifico. Spesso non è lineare e, se guardiamo a quelli più sperimentali, molti autori (ad esempio Chris Ware) hanno giocato su una strutturazione diversa, su incastri e connessioni delle immagini. Le pagine possono essere lette secondo diverse direzioni, due storie parallele si possono mescolare. Sono espedienti giocosi che dapprima non sono stati applicati alla scienza ma che si dimostrano molto utili nel nostro ambito, proprio perché la scienza non è sempre lineare: ci sono più teorie, anche in conflitto, cambiamenti, unioni, tempi differenti. Il fumetto si rivela il formato più adatto nello spiegare tutto questo, potendo combinare la chiarezza di un’illustrazione con la parte narrativa.
Studiando il legame tra società, arti visive e divulgazione scientifica, potrei chiederti qual è il futuro dell’arte nella divulgazione scientifica secondo te?
Ci sono diversi ruoli dell’arte nella scienza. In una conferenza riguardante Art&Science, una delle prime riflessioni emerse è che esistono modelli totalmente differenti, afferenti alle diverse discipline. C’è un ramo di arte scientifica che è possibile definire come “arte ispirata dalla scienza”: il suo ruolo non è spiegare e non deve esserlo, non deve essere didattica ma deve coinvolgere il pubblico e donare nuovi punti di vista. C’è quello che faccio io o gli illustratori scientifici, che è più un processo di traduzione: in questo caso lo scopo non è la creatività e l’emotività ma prendere concetti complessi, innovativi, e tradurli in un formato più accessibile. Un’altra idea è l’arte come critica, quindi non strettamente al servizio della scienza, legata a un’interpretazione ed esposizione delle conseguenze sociali, etiche e morali di determinate ricerche. Non esiste una risposta univoca a questa domanda, è un campo nuovo che si sta sviluppando ma un passo importante è sicuramente la distinzione tra questi differenti percorsi.
