E inutile ripetersi, d’accordo, ma spesso repetita iuvant. Una delle sfide fondamentali della nostra società è quella della futura sicurezza alimentare in un contesto di eco-compatibilità. Si tratta di un tema già trattato in questa rubrica, è vero, ma non mi sono mai soffermato finora su uno dei paradigmi fondamentali della produzione agraria che il mio indimenticato maestro C.T. deWit (1924-1993) scolpì nella pietra del suo celebre articolo del 1966, Photosynthesis of Crop Surfaces: “La produzione teorica di una coltura – scriveva deWit – è proporzionale alla quantità di luce da essa intercettata”.
E inutile ripetersi, d’accordo, ma spesso repetita iuvant. Una delle sfide fondamentali della nostra società è quella della futura sicurezza alimentare in un contesto di eco-compatibilità. Si tratta di un tema già trattato in questa rubrica, è vero, ma non mi sono mai soffermato su uno dei paradigmi fondamentali della produzione agraria che il mio indimenticato maestro C.T. deWit (1924-1993) scolpì nella pietra del suo celebre articolo del 1966, Photosynthesis of Crop Surfaces: “La produzione teorica di una coltura – scriveva deWit – è proporzionale alla quantità di luce da essa intercettata”.
Il paradigma della produzione legata alla luce
Oggi sembra un’asserzione banale, perché crediamo di aver ben assimilato il concetto. Ma tutto torna a essere non banale se riflettiamo sui diversi modi con cui possiamo mettere in pratica questo incontestabile ammaestramento. Sappiamo, e deWit lo sapeva meglio di tutti, che l’efficienza di conversione dell’energia luminosa intercettata in biomassa non supera mai, nelle colture di oggi, un misero 3-4 per cento. Solo questa piccola frazione dell’energia luminosa intercettata dalla migliore delle nostre attuali coltivazioni diventa cibo; il resto dell’energia viene consumata in processi metabolici ma soprattutto dissipato sottoforma di calore, fluorescenza e attraverso cicli biochimici futili.
Ridurre l’effetto serra senza diminuire la produttività delle piante
Ecco allora apparire, poche settimane fa, un originale articolo di Drewry e colleghi che elabora l’idea che si possano effettivamente progettare vegetali con caratteristiche delle foglie o struttura della chioma tali da aumentare la frazione di luce riflessa senza modificare la produttività, grazie a un miglior utilizzo della radiazione assorbita o una più efficiente distribuzione della radiazione. Sarebbe come dire che con queste colture si potrebbe ridurre la quantità netta di radiazione solare che riscalda la superficie del pianeta senza però modificare la produttività delle piante e la produzione di cibo. E se ciò si potesse davvero realizzare si otterrebbe un risultato straordinario: una riduzione netta dell’effetto serra (facendo diventare la terra più “riflettente”) ma uguale, o forse addirittura maggiore, produzione di cibo per unità di superficie. Un sogno? Non credo. Presto parleremo di una mutazione della soia apparsa casualmente in un programma di miglioramento genetico dell’Università del Minnesota, in Usa. Un mutante vegetale che sembra, pur nel rispetto del paradigma base di deWit, dimostrare che un altro approccio all’agricoltura è possibile. Ma bisogna far presto.
Riferimenti: Drewry, D. T., Kumar, P., & Long, S. P. (2014). Simultaneous improvement in productivity, water use, and albedo through crop structural modification. Global change biology, 20(6), 1955-1967.