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15 Ott 2018

Quanta plastica può ingoiare una tartaruga marina prima di morire?

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La plastica in ambiente marino è una minaccia costante per la fauna. È un problema crescente e, per quanto riguarda le tartarughe marine, un recente studio pubblicato su Scientific Reports e commentato nelle pagine del sito del New York Times – Science, ha cercato di quantificare la plastica necessaria a uccidere questi animali.

La plastica in ambiente marino è una minaccia costante per la fauna. È un problema crescente e, per quanto riguarda le tartarughe marine, un recente studio pubblicato su Scientific Reports e commentato nelle pagine del sito del New York Times – Science, ha cercato di quantificare la plastica necessaria a uccidere questi animali.

 

Un rischio (in)evitabile

 

L’accumulo e la persistenza di detriti plastici nell’ambiente marino è una grave minaccia per la salute del nostro Pianeta. Nel 2010, da 4,8 a 12,7 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica sono entrati nell’oceano a partire da attività continentali e tale input non potrà che aumentare nel futuro. Questo materiale può impattare in due modi sulla vita marina: attraverso l’intrappolamento delle specie presenti o tramite ingestione. Nel primo caso gli effetti sono devastanti, specialmente se vi è implicata l’attrezzatura da pesca, e ora anche il secondo caso inizia a diventare motivo di preoccupazione.
Le tartarughe marine sono state le prime a ingerire plastica, succede in tutte le regioni del mondo e a tutte le 7 specie, a rischio di estinzione: la tartaruga liuto (Dermochelys coriacea), la tartaruga verde o tartaruga franca (Chelonia mydas), la tartaruga comune (Caretta caretta), la tartaruga embricata (Eretmochelys imbricata), la tartaruga di Kemp (Lepidochelys kempii), la tartaruga olivastra (Lepidochelys olivacea) e la tartaruga a dorso piatto (Natator depressus). L’ingestione può avvenire in tutte le fasi del ciclo di vita di questi animali ma appare più frequente in età giovanile e nelle fasi pelagiche, ossia quelle della vita in mare aperto. Il motivo dell’incidenza del fenomeno in queste finestre temporali è probabilmente legato al fatto che gli individui più giovani sono trasportati dalle correnti in cui si accumulano i detriti plastici e, inoltre, selezionano meno degli adulti il cibo di cui nutrirsi.

 

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Lo studio

 

I ricercatori hanno utilizzato due set di dati: uno basato sulle autopsie di 246 tartarughe marine e l’altro che contiene 706 record estratti dal database degli spiaggiamenti in Australia (l’area di cui ci si è occupati nello studio in questione). Sulla base di questi dati sono stati formati due gruppi. Nel primo rientravano le tartarughe morte per cause certe ma non direttamente legate all’ingestione di plastica; nel secondo quelle morte per cause sconosciute o dovute alla plastica (ad esempio, intestino perforato o bloccato).
Nell’apparato digerente del primo gruppo è stata trovata una quantità minore di rifiuti plastici rispetto agli altri, quelli, cioè, appartenenti a individui uccisi a seguito dell’ingestione di plastica.
Cosa significano questi risultati? Se una tartaruga marina ingoiasse piccoli pezzi di plastica, potrebbe anche sopravvivere (e morire per altre cause), ma a questo c’è un limite. Secondo l’analisi, un animale ha il 50% di possibilità di soccombere se ha nel suo apparato digerente 14 frammenti di plastica.

 

Riflessioni su questo approccio

 

Al di là della volontà di dare un numero preciso, una quantità da non superare, tante sono le variabili da considerare legate all’ingestione di plastica e alla salute delle tartarughe marine. Nell’articolo del New York Times – Science si cerca di discutere meglio l’approccio del lavoro pubblicato su Scientific Reports dai ricercatori dell’Oceans and Atmosphere – Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation di Hobart (Tasmania, Australia).
Jennifer Lynch, una biologa del National Institute of Standards and Technology delle Hawaii, non è d’accordo sulla modalità con cui lo studio ha misurato la vulnerabilità alla plastica. Durante i suoi anni di ricerca ha avuto la possibilità di osservare animali che non erano stati danneggiati dopo aver ingoiato 300 pezzi di plastica, quindi non crede che 14 frammenti possano costituire un elevato rischio di mortalità.
La differenza tra la ricerca australiana appena pubblicata e quella hawaiana sta nella salute degli animali esaminati: nella prima c’è un forte bias, una tendenza a considerare animali molto malati morti. Nella seconda, invece, gli individui studiati erano animali vivi e in salute, poi morti perché annegati a causa di un amo da pesca.
Secondo Lynch il nuovo studio avrebbe dovuto focalizzarsi non sul numero dei frammenti di plastica ma sul loro peso: se ci pensate un pezzo di plastica può essere una piccola briciola di microplastica o un intero sacchetto. I due oggetti hanno sicuramente un impatto diverso sull’animale una volta ingeriti.
Su una cosa però i ricercatori sono d’accordo: le tartarughe stanno mangiando troppa plastica. La biologa ha quindi concluso: “Dobbiamo tenere sotto controllo questo inquinante se non vogliamo uccidere metà delle nostre tartarughe marine”.

 

L’inquinamento da plastica è una delle emergenze da affrontare prima che sia troppo tardi. Potete approfondire l’argomento acquistando e leggendo l’articolo “Le isole di plastica: alla scoperta del settimo continente” di Eleonora Polo, pubblicato nel numero di aprile 2016 di Sapere.

REDAZIONE
La Redazione del sito saperescienza.it è curata da Micaela Ranieri dal 2019, in precedenza hanno collaborato Stefano Pisani e Alessia Colaianni.
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