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06 Ott 2020

Catastrofi, città, megacittà

Nicola Armaroli

Nicola Armaroli
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Tutto è partito da Wuhan, città cinese che molti non avevano mai sentito nominare. Anzi, una delle 33 “megacittà” del mondo, abitate da più di 10 milioni di persone. Gestire questi immensi agglomerati urbani, ove risulta spesso difficile individuare persino i confini territoriali, è un’impresa difficile: pensiamo alle colossali quantità di acqua potabile e cibo di cui hanno bisogno e agli enormi flussi di liquami e rifiuti da smaltire, ogni giorno. La fatica diventa erculea in caso di eventi catastrofici.
Agli inizi del XX secolo, solo il 9% delle persone viveva in città con più di 20000 abitanti. Non esiste una quantificazione universale di “area urbana” (nella vuota Svezia la soglia è 200 abitanti), ma secondo l’ONU la popolazione urbana ha superato quella rurale nel 2007, attestandosi oggi al 55% a livello globale, con una proiezione al 60% per il 2050. Negli USA la percentuale supera l’80%, questo spiega perché le elezioni presidenziali si vincono nelle città. Dalla morte di Mao a oggi (1976-2020) la popolazione urbana cinese è passata dal 18% a oltre il 60%, un fenomeno che ha coinvolto 650 milioni di persone e creato la più alta concentrazione mondiale di megacittà. In pratica, la gestione delle catastrofi nel XXI secolo sarà in buona parte un problema di gestione urbana.
È interessante analizzare brevemente la traiettoria dell’espansione delle città nella storia. I primi nuclei urbani si sono sviluppati circa 6000 anni fa nella Mezzaluna Fertile. La più antica città del mondo è probabilmente Eridu, che sorse nell’attuale territorio iracheno, a sud-ovest dell’odierna Nassiriya. Era parte di un agglomerato di città cui appartenevano, tra le altre, Lagash e Uruk. In quest’ultima sono stati ritrovati i più antichi reperti scritti di cui disponiamo. Fino a circa due secoli fa non furono mai condotti censimenti sistematici, quindi la popolazione delle città antiche è stimata sulla base di indagini storiche e archeologiche. I primi nuclei cittadini della Mesopotamia non superavano i 5000 abitanti ma, già attorno al 2600 a.C., Uruk raggiunse probabilmente gli 80000 abitanti. Dopo il 1900 a.C., uno dei centri principali della regione divenne Babilonia, che potrebbe aver superato quota 100000. Correndo velocemente nel tempo, si stima che nel periodo di massimo splendore, attorno al 430 a.C., Atene non superasse i 40 000 residenti.
Per raggiungere numeri comparabili ai centri urbani moderni, bisogna attendere l’epoca ellenistica, quando Alessandria superò le 300000 unità. Vi è generale consenso sul fatto che la Roma imperiale del I secolo fosse abitata da oltre un milione di persone, vera metropoli multietnica dell’antichità assieme a Costantinopoli, che però non superò i 500000 abitanti. Roma è stata la città più grande del mondo per quasi 600 anni (100 a.C.-450 d.C.), un record probabilmente ineguagliabile. Sono stati necessari tre secoli prima che un’altra città raggiungesse il milione di abitanti (Chang’an, Cina, VIII secolo), seguita da Baghdad 200 anni dopo. Trascorsero altri 800 anni prima che se ne aggiungesse una quarta (Pechino, XIX secolo), seguita rapidamente da Tokyo e Londra.
Il limite di espansione delle città antiche era la capacità di reperire risorse (cibo, legname, fibre…) nelle immediate vicinanze, ma lo sviluppo del trasporto e del commercio ruppe questi vincoli. Il porto di Ostia era il cuore pulsante di Roma, metropoli che necessitava di almeno 200000 tonnellate di cereali l’anno, in arrivo da Egitto e Nord Africa. Non a caso tutte le maggiori città dell’antichità classica erano dotate di un grande porto: Atene, Corinto, Siracusa, Agrigento, Cartagine. Nel corso dei secoli, lo sviluppo delle vie fluviali e terrestri rese progressivamente possibile l’espansione di città lontane dal mare: agli inizi del XIV secolo, le maggiori città d’Europa erano Parigi e Milano con circa 200000 abitanti.
Nel corso del XIX secolo, a seguito della Rivoluzione industriale, è iniziato un massiccio processo di migrazione dalle campagne ai centri urbani, soprattutto in Europa, Stati Uniti e Giappone. Londra passò da 1 a 6,5 milioni di abitanti, Parigi da 550000 a 4 milioni, New York da 60000 a 3,4 milioni, Tokyo raddoppiò sino a 1,5 milioni. Erano gli albori dello sviluppo delle megacittà e delle megalopoli, un processo iniziato nella seconda metà del XX secolo e tuttora in corso. Le metropoli moderne sono il simbolo della globalizzazione: complessi organismi che spesso esercitano un’influenza economica mondiale e sono fondati su una rete di sostentamento materiale estesa a tutto il pianeta. Un groviglio inestricabile di forza e debolezza, come l’epidemia di Covid-19 ha messo in luce.
Come si vede nella mappa qui a fianco, 20 delle attuali 33 megacittà sono in Asia: sei in Cina, quattro in India, le altre dieci lungo tutto il continente, da Teheran a Osaka. Il Centro-Sud America ne ospita cinque e l’Africa solo due, un numero destinato a crescere entro pochi anni, con Johannesburg, Luanda, Dar es-Salaam. In Europa e Nord America ve ne sono sei.
Le megacittà non sono corpi isolati, di solito si espandono sino a compenetrarsi con i centri vicini, attraverso il fenomeno della conurbazione. Tokyo è ormai fusa con altre città, tra cui Yokohama e Kawasaki, a costituire l’area metropolitana più popolata al mondo con 44 milioni di abitanti. Il comune di New York ospita 9 milioni di persone su 790 km2. La sua area metropolitana, 21 milioni di abitanti, è però venti volte più vasta e conurbata con decine di città e cittadine che si estendono in New Jersey, Connecticut e Pennsylvania per 25 milioni di abitanti. Questo immenso agglomerato fa a sua volta parte della cosiddetta North-East Megalopolis, il più grande corridoio urbano del mondo, che ingloba le aree metropolitane di Boston, New York, Philadelphia, Baltimora e Washington: 50 milioni di persone dislocate su un’area di 130000 km2, circa metà del territorio italiano.
Città, megacittà e megalopoli sono colossali consumatrici di risorse naturali e materiali; in cambio offrono una possibilità unica di scambiare idee, conoscenze e pratiche che sono le basi del progresso umano. Attorno e dentro alle grandi città nascono e si autoalimentano poli e distretti industriali (Shenzhen), tecnologici (Silicon Valley-San Francisco), accademici (ovunque), finanziari (Londra, Shanghai) o del divertimento (Hollywood-Los Angeles).
Le città sono magneti che offrono grandi opportunità di lavoro. Possono però diventare trappole micidiali per i più deboli, a causa dell’elevato costo della vita, che li costringe, nei casi migliori, a un estenuante pendolarismo quotidiano e, nei peggiori, a una vita di espedienti in periferie degradate.
Nelle grandi aree urbane si amplificano a dismisura i rischi legati alla gestione di fenomeni catastrofici: terremoti, uragani, ondate di calore, epidemie, innalzamento dei mari. Tokyo, Ko¯be, Istanbul, Delhi, Manila, Jakarta, Santiago, Islamabad, Quito, Città del Messico, Los Angeles e molte altre metropoli sorgono in zone altamente sismiche; due miliardi di persone vivono in aree urbane costiere a rischio inondazione tra cui Calcutta, Dacca, Mumbai, Guangzhou, Shanghai, Bangkok, Rangoon, Miami, Lagos, Durban, Tokyo, Osaka, Jakarta, Venezia, Amsterdam, Amburgo, San Pietroburgo. Le ondate di calore diventeranno sempre più frequenti; Karachi, 16 milioni di abitanti, è la megacittà più calda del mondo e diventa sempre più invivibile. L’epidemia di Covid-19 su una nave da crociera nel porto di Yokohama – potenziale bomba virale nel cuore della più grande area metropolitana del mondo – ha scatenato il panico. Singapore e Jakarta sono due metropoli relativamente vicine, entrambe con un clima insopportabile, ma agli antipodi come qualità della vita. Della prima ho un ricordo bellissimo: organizzata, pulita, sicura. Della seconda, infernale: un mix terribile di inquinamento atmosferico e caos. Pare che stia sprofondando sotto la sua stessa cementificazione e occorra spostare altrove la capitale indonesiana.
Come si sono comportate le città in occasione della pandemia di Covid-19? Tutto sommato, non malissimo. Le metropoli che hanno reagito prontamente all’epidemia (chiusure e obbligo di mascherine) hanno retto: forte leadership politica e uso di consulenza scientifica si sono dimostrate cruciali. Seul, Hanoi, Trivandrum e Ho Chi Minh City sono storie asiatiche di successo, San Paolo, Houston e Delhi sono state a tratti sopraffatte. New York e Hong Kong hanno una popolazione e una densità simile, la prima ha avuto 220000 infettati e quasi 20000 morti, la seconda – allenata dall’esperienza SARS del 2003 – 3500 infettati e meno di 40 morti.
Un altro fattore di forza è stata la risposta all’emergenza a livello di comunità, reagendo insieme, facendo rete. Varie iniziative, talvolta anche estemporanee, hanno probabilmente salvato un grande numero di vite, soprattutto nei Paesi meno sviluppati. A Kigali e Nairobi sono state approntate stazioni per il lavaggio delle mani, un’iniziativa semplice ma importantissima in contesti dove questo gesto non è scontato. Nelle megalopoli indiane di Bangalore, Chennai e Mumbai, ONG e privati cittadini hanno distribuito dispositivi di protezione per i più poveri. A Lusaka una suora ha messo in piedi una trasmissione radiofonica per rispondere ai quesiti sanitari dei cittadini nelle sette lingue parlate in Zambia. A Buenos Aires uno strumento social ha diffuso una gran quantità di informazioni utili e affidabili ai cittadini disorientati. Varie app di tracciamento dei contagi funzionano in molti Paesi, anche se c’è chi si ostina assurdamente a non installarle. In Italia possiamo contare su una rete diffusa di Protezione Civile, felice retaggio di catastrofi mal gestite in passato. Molti Paesi hanno instaurato reti di supporto reciproco: l’Italia è stata aiutata nelle settimane iniziali della pandemia, per poi aiutare altri Paesi in quelle successive. Questo tipo di aiuti deve uscire dalla estemporaneità per essere consolidato con accordi internazionali permanenti, simili a quelli in atto per il controllo del rischio nucleare o batteriologico.
Di fronte a tanti segnali positivi, bisogna rilevare anche aspetti meno incoraggianti. Il virus ha colpito più duramente le popolazioni svantaggiate: categorie sociali a reddito basso e minoranze. Non esiste ancora un vaccino, ma tutti i Paesi ricchi si sono già accaparrati miliardi di dosi a dispetto del fatto che, fino a quando ci sarà un solo infettato al mondo, rimarremo tutti a rischio.
Abbiamo fatto molta strada dall’epoca della Mezzaluna Fertile; quale modello di città prevarrà? Connesso, solidale, inclusivo e guidato dalla conoscenza, oppure disconnesso, egoista, divisivo e guidato da leader che si vantano di non leggere libri?
Oggi Uruk è un deserto. Occhio, perché ogni tanto la storia si ripete.

Ringrazio tutti i colleghi che hanno contribuito a questo numero speciale dedicato alle “catastrofi” di ogni tipo. Un numero che dovrebbe essere letto, tra gli altri, da amministratori pubblici, imprenditori, urbanisti e insegnanti. Oltre naturalmente ai giovani, che dovranno mostrarsi più preparati di noi a evitare e gestire catastrofi. Solo tenendo la testa fuori dalla sabbia e restando uniti preserveremo la fragile e complessa civiltà che abbiamo creato su questo minuscolo pianeta.

Nicola Armaroli
Nicola Armaroli
Nicola Armaroli, direttore di Sapere dal 2014, è dirigente di ricerca del CNR e membro della Accademia Nazionale delle Scienze (detta dei 40). Lavora nel campo della conversione dell’energia solare e dei materiali luminescenti e studia i sistemi energetici nello loro complessità. Ha pubblicato oltre 250 lavori scientifici, 11 libri e decine di contributi su libri e riviste. Ha tenuto conferenze in università, centri di ricerca e congressi in tutto il mondo ed è consulente di varie agenzie e società internazionali, pubbliche e private, nel campo dell’energia e delle risorse. Ha ottenuto vari riconoscimenti tra cui la Medaglia d’Oro Enzo Tiezzi della Società Chimica Italiana e il Premio per la Chimica Ravani-Pellati della Accademia delle Scienze di Torino. È un protagonista del dibattito scientifico sulla transizione energetica su tutti i mezzi di comunicazione (v. qui).
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