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21 Apr 2023

Facile dire biocarburanti

Nicola Armaroli

Nicola Armaroli
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Il punto di svolta nei trasporti

Nel 2022 le auto al 100% elettriche hanno raggiunto il 10% delle vendite globali: il punto di svolta è superato, l’auto a motore termico è avviata al tramonto. L’anziana signora, raggiunta la veneranda età di 140 anni, è pronta a passare la mano, nonostante impietosi consiglieri le suggeriscano di non mollare. Non hanno a disposizione argomenti solidi, ma un nutrito arsenale di slogan e parole chiave. Di recente ne sono tornate in auge alcune che richiamano un’idea di sostenibilità e fattibilità, dietro la quale si cela spesso tutt’altro: biocombustibili, combustibili sintetici, e-fuels. Di che si tratta?

Partiamo dal punto chiave della questione. Oggi nel mondo utilizziamo ogni anno circa 4 miliardi di tonnellate di petrolio per alimentare il sistema dei trasporti. Se volessimo partire da biomassa vegetale, ne servirebbero almeno 12 miliardi di tonnellate, pari al 50% di tutta la biomassa che iniettiamo annualmente nell’economia mondiale attraverso le attività agricole e forestali. Evidentemente una sola Terra non basterebbe.

 

Perché i biocombustibili non bastano

Rassegniamoci: la cuccagna del trasporto fossile (ogni anno bruciamo circa 500 anni di attività fotosintetica del Giurassico) è un evento una tantum della storia che, in ogni caso, è insensato perpetuare. Infatti ben 3 miliardi di tonnellate di petrolio dei 4 che usiamo non vanno a muovere ruote, eliche o turbine, ma sono dissipati come calore nei motori. Quindi, la vera questione da affrontare non è il cambiamento del combustibile, bensì quello del motore.

Cambiare combustibili non sposta nulla in termini di – mostruoso – spreco energetico e di inquinamento al tubo di scarico: ossidi di azoto e particolato ultrafine non diminuiscono mettendo il prefisso “bio” al sostantivo combustibile.

Il petrolio è un liquido fantastico capace di mandare in visibilio ogni chimico: una sorta di “semilavorato” già disponibile in natura, da cui si possono ricavare combustibili per tutti i mezzi di trasporto (benzina, gasolio, kerosene…) attraverso un processo relativamente semplice e standardizzato, la raffinazione. La situazione è ben diversa nel caso dei biocombustibili dove le materie prime sono tante e molto variegate: canna o barbabietola da zucchero, mais, piante oleose (come colza, girasole o palma), biomassa di scarto, oli alimentari usati, grassi animali… Ognuna di queste materie prime necessita di uno specifico processo di lavorazione per poi essere convertita in combustibile per auto, camion, aerei, navi. Di fatto, tutti i biocombustibili sono “sintetici”, nel senso che sono prodotti in grandi impianti industriali attraverso una varietà di processi termici, chimici, biochimici. Inoltre, sono in genere utilizzati per “tagliare” carburanti fossili: raramente possono essere usati in modo esclusivo.

 

L’idrogeno

Un ingrediente fondamentale in alcuni processi di produzione di biocombustibili è l’idrogeno. L’unico idrogeno sostenibile è quello “verde”, prodotto con elettrolizzatori, da acqua ed elettricità rinnovabile. Per 1 kg di idrogeno verde occorrono 9 litri di acqua e 55 kWh di elettricità, cioè quantità molto elevate. Oggi il costo dell’idrogeno verde oscilla tra 10 e 20 € al chilo, valori ancora troppo alti per un utilizzo massiccio nell’industria dei biocarburanti.

 

Biocombustibili di prima e di seconda generazione

I biocombustibili sono suddivisi in due categorie, il cui confine non è sempre netto. Si definiscono di “prima generazione” quelli ottenuti da colture dedicate, come avviene per bioetanolo e biodiesel. Il primo ha caratteristiche analoghe alla benzina ed è ricavato da prodotti ricchi di zuccheri o amidi (canna da zucchero, mais) sottoposti a processi di fermentazione. Il secondo è ottenuto da oli vegetali (colza, girasole) sottoposti a un processo chimico di “transesterificazione”.

Decenni di studi mostrano che i biocarburanti di prima generazione sono una soluzione sostenibile in contesti geografici limitati, ad esempio laddove le condizioni climatiche e ambientali riducono al minimo la necessità di irrigare o usare fertilizzanti per la coltivazione della materia prima. È il caso ad esempio della canna da zucchero in Brasile. Non potranno però mai essere una soluzione definitiva: se Europa e Stati Uniti volessero sostituire anche solo il 5% dei propri consumi di carburanti con questa opzione, dovrebbero dedicare allo scopo circa il 20% della loro terra coltivabile. In pratica, il dilemma cibo vs. energia diventa un ostacolo insormontabile.

L’uso di biomassa non alimentare, ovvero rifiuti organici o coltivazioni povere su terreni agricoli marginali, può superare l’ostacolo: ecco i biocarburanti di “seconda generazione” (o “avanzati”). Purtroppo, dopo anni di impianti su piccola scala, i progressi nel campo sono limitati e i costi ancora alti. Ottenere biocarburanti da rifiuti vegetali richiede complicate lavorazioni che prevedono pre-trattamenti (come pirolisi o gassificazione) seguiti da ulteriori processi chimici (upgrade) da cui si ricava il combustibile liquido.

 

Gli e-fuels

Molta enfasi viene posta, infine, sui cosiddetti e-fuels, cioè su combustibili ottenuti da elettricità rinnovabile. L’idea è quella di scindere per via elettrochimica molecole semplici come CO2 e H2O, per ottenere miscele di H2 e CO, da convertire poi in combustibili liquidi attraverso opportuni trattamenti: tipicamente il processo Fischer-Tropsch, già utilizzato dalla Germania a corto di carburanti nella Seconda guerra mondiale. Gli e-fuels sono uno stimolante campo di ricerca, ma la loro produzione industriale su larga scala resta un obiettivo lontano.

 

A che punto siamo?

Attualmente i biocombustibili coprono meno del 3% del fabbisogno mondiale di carburanti per i trasporti; oltre il 90% di questi è di prima generazione. In Europa, circa 50 000 km2 di terreni coltivabili sono destinati a produzione esclusiva di biocombustibili. Un’espansione incontrollata di queste attività a livello globale può ridurre la disponibilità di cibo sui mercati, innalzando i prezzi. È un rischio da scongiurare in un mondo in cui decine di milioni di persone affrontano quotidianamente una severa carenza alimentare.

I biocarburanti tendono a promuovere la monocoltura intensiva, che a sua volta implica ulteriori impatti e genera spesso bilanci in perdita nelle emissioni climalteranti: riduzione della capacità dei terreni di assorbire carbonio, scomparsa della biodiversità, deforestazione.

Un punto dirimente, poi, è il bilancio energetico complessivo delle operazioni, che resta spesso ambiguo: l’energia che muove un automezzo deve scontare tutta quella spesa nella filiera produttiva del combustibile. Numerosi studi mostrano, ad esempio, che il bioetanolo da mais degli Stati Uniti, prodotto in enormi quantità grazie a generosi sussidi federali, risulta una spesa (dovuta a semina, irrigazione, fertilizzanti, pesticidi, raccolta, lavorazione, trasporto…) e non una fonte energetica.

Da qualche tempo è in voga la produzione del cosiddetto biodiesel HVO, ottenuto da idrogenazione di olio vegetale. È presentato come una soluzione sostenibile, ma spesso la realtà è ben diversa. Per anni questo prodotto è stato ottenuto quasi esclusivamente da coltivazioni di olio di palma su terreni deforestati nel Sud-Est asiatico.

Oggi le aziende petrolifere, in cerca di un’immagine più verde, promettono di utilizzare solo oli alimentari usati e grassi animali di scarto. Numeri alla mano, i dati dei consorzi di filiera indicano che in Italia si raccolgono circa 40 000 tonnellate l’anno di oli alimentari usati. I piani delle aziende petrolifere si attestano su volumi dieci volte maggiori, quindi la materia prima per il biodiesel HVO sarà importata da mezzo mondo, aprendo una seria questione di tracciabilità, bilanci emissivi e bilanci di energia.

Spero che questo quadro sommario possa aiutare a capire la complessità di un tema troppo spesso raccontato con una faciloneria che talvolta sconfina nella pubblicità ingannevole. La produzione di biocarburanti è una possibilità interessante, che va però analizzata attentamente caso per caso, onde evitare che le migliori intenzioni si rivelino un incubo. Al momento, la prospettiva più verosimile è che le limitate quantità di biocarburanti sostenibili che potremo produrre andranno indirizzate in modo quasi esclusivo su navi e aerei, i mezzi più difficili da de-fossilizzare.

Nel frattempo, mentre studiamo e riflettiamo, può essere utile rilevare che i 50 000 km2 di terreno agricoli impiegati in Europa per la produzione di biocarburanti per il trasporto su strada sarebbero ridotti del 97,5% se venissero coperti da pannelli fotovoltaici per alimentare auto elettriche.

Forse non ha senso cercare soluzioni a problemi che abbiamo già risolto. Concentriamoci sul resto.

Nicola Armaroli
Nicola Armaroli
Nicola Armaroli, direttore di Sapere dal 2014, è dirigente di ricerca del CNR e membro della Accademia Nazionale delle Scienze (detta dei 40). Lavora nel campo della conversione dell’energia solare e dei materiali luminescenti e studia i sistemi energetici nello loro complessità. Ha pubblicato oltre 250 lavori scientifici, 11 libri e decine di contributi su libri e riviste. Ha tenuto conferenze in università, centri di ricerca e congressi in tutto il mondo ed è consulente di varie agenzie e società internazionali, pubbliche e private, nel campo dell’energia e delle risorse. Ha ottenuto vari riconoscimenti tra cui la Medaglia d’Oro Enzo Tiezzi della Società Chimica Italiana e il Premio per la Chimica Ravani-Pellati della Accademia delle Scienze di Torino. È un protagonista del dibattito scientifico sulla transizione energetica su tutti i mezzi di comunicazione (v. qui).
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