Maggio 2021 è entrato nella storia del petrolio e del gas, le due sostanze che hanno dato la spinta al più grande balzo economico e tecnologico della civiltà umana. Il 18 maggio l’Agenzia Internazionale per l’Energia ha pubblicato una roadmap dell’economia mondiale entro il 2050. Il documento indica misure drastiche, ad esempio vietare la vendita di caldaie a gas dopo il 2025 o sospendere la ricerca di nuovi giacimenti di idrocarburi, perché bastano e avanzano quelli già scoperti per mettere KO il clima. È quanto basta per suscitare un putiferio: le grandi aziende oil&gas abbozzano, prese in contropiede da un’agenzia che ha sempre avuto un occhio di riguardo nei loro confronti.
Il clamore non si è ancora spento quando, otto giorni dopo, arriva il “mercoledì nero” delle compagnie petrolifere. Una sentenza del tribunale dell’Aja obbliga il gigante olandese Shell a innalzare gli obiettivi di abbattimento dei gas serra. Nel frattempo, dall’altra parte dell’oceano, una tempesta si abbatte su altre due aziende del settore. Gli azionisti di Chevron respingono il piano di abbattimento delle emissioni proposto dai vertici dell’azienda perché troppo timido. A ExxonMobil va peggio: una piccola società di attivisti ambientali che detiene lo 0,02% delle azioni riesce a far entrare nel CdA due suoi esponenti, estromettendo due manager ritenuti responsabili della mancanza di un piano aziendale credibile per la decarbonizzazione.
Le motivazioni dei ribelli in seno ai colossi USA sono molto concrete: l’immobilismo ambientale creerà un forte danno economico agli azionisti, e sui soldi non si scherza. Alcuni sostengono che questa mossa non aiuterà il clima, perché le aziende petrolifere di Stato dei Paesi non democratici compenseranno tutto. Argomentazione valida, ma inutile: qui decidono tribunali e assemblee, non un dittatore.
Purtroppo gli echi dell’uragano di maggio sono giunti in Italia molto attutiti. Eppure la questione ci riguarda da vicino. C’erano una volta due aziende formidabili. Una era leader mondiale nella ricerca di idrocarburi, protagonista di scoperte memorabili in ogni angolo del pianeta. Un’altra gestiva una delle più estese reti di trasporto di gas al mondo. Tutto bello finché, di punto in bianco, si sono accorte che il loro business non ha alcun futuro oltre il breve termine. Il loro risveglio è stato tardivo: le cose erano manifeste da tanti anni, ma si è preferito traccheggiare.
Quando esplodono crisi epocali per un settore industriale, le aziende hanno due opzioni: cambiare radicalmente o prolungare l’agonia fino alla morte. Alcune proposte che le due aziende italiane stanno avanzando, come il sequestro geologico della CO2 a Ravenna o l’utilizzo di gasdotti per trasportare miscele idrogeno/metano, vanno nella direzione dell’agonia. Questo è un problema per tutti, poiché le aziende in questione garantiscono dividendi importanti per il bilancio statale e milioni di persone hanno investito sudati risparmi nelle loro azioni. Del resto, salvare a ogni costo chi è destinato a uscire dal mercato è inutile. Le vicende di Kodak, Nokia e Blockbuster insegnano.
Le non scelte delle nostre due aziende sono plasticamente rappresentate dal logo di una di esse. Tutte le concorrenti si sono lanciate da anni in una massiccia opera di restyling dell’immagine. Qui da noi campeggia ancora un drago che sputa fuoco. Molto vintage e stylish, niente da dire. Ma se c’è una cosa che tutti hanno ormai capito è che meno bruciamo meglio è, quando produciamo energia. Per prenderne atto e agire di conseguenza, servono vertici aziendali pronti ai cambiamenti necessari, non goffi tentativi di continuare sulla vecchia strada.
È un momento cruciale per due grandi aziende italiane, un tempo all’avanguardia. Il futuro di ENI e SNAM sarà una grande opportunità o un colossale problema?