Lo scorso novembre ero a Pechino per lavoro. L’arrivo in città è stato sorprendentemente piacevole: sole splendente, visibilità illimitata; nulla che ricordasse l’immagine di una città-icona dell’inquinamento atmosferico, quando a un certo punto…
Lo scorso novembre ero a Pechino per lavoro. L’arrivo in città è stato sorprendentemente piacevole: sole splendente, visibilità illimitata; nulla che ricordasse l’immagine di una città-icona dell’inquinamento atmosferico. Un vento sferzante dalla Mongolia aveva ripulito l’aria di una megalopoli di 22 milioni di abitanti e sei anelli concentrici di tangenziali intasate di auto e camion, il più esterno lungo 170 km. Effetto collaterale: 9 gradi sottozero.
In pochi giorni, però, la forza della natura si è affievolita e le attività umane hanno sopraffatto l’atmosfera della città. Il sesto giorno la concentrazione delle polveri fini PM2,5 ha raggiunto i 500 microgrammi per metro cubo, 20 volte il valore limite per la legge italiana. L’indice di qualità dell’aria segnava allerta massima: hazardous, cioè “pericolosa”. Da padano, pensavo di essere immune agli effetti di un intenso aerosol alle PM2,5. Mi sbagliavo: la sera, nel silenzio della stanza, ho avvertito il respiro lievemente asmatico. L’inquietante scoperta faceva seguito al consiglio “ufficioso”, ricevuto un paio di giorni prima, di non fidarmi dell’acqua del rubinetto per l’inquinamento da metalli pesanti. In un attimo mi sono sentito come una comparsa sul set di Blade Runner, prigioniero di una città cupa, ostile e fuori controllo.
Questa esperienza non mi ha però impedito di tornare a casa con barlumi di speranza, alimentati dalla constatazione che i primi a capire la gravità dell’inquinamento in cui vivono sono i cinesi stessi. E infatti la legislazione ambientale cinese è tra le più severe al mondo, ma per ora una diffusa corruzione ostacola controlli e sanzioni.
Durante il viaggio ho visitato aziende all’avanguardia mondiale nel campo del ciclo dei rifiuti. Impianti che estraggono elementi chimici rari e preziosi (oro, palladio, indio, litio, cobalto, germanio) da ogni sorta di dispositivi elettronici dismessi. Oppure trattano liquami e rifiuti urbani per ricavare fertilizzanti, plastica, materiali da costruzione e altre utili risorse. La Cina sta prendendo molto sul serio il superamento dell’economia lineare tradizionale, quella che utilizza la crosta terrestre e la biosfera come deposito di risorse naturali e, allo stesso tempo, come discariche di rifiuti. È un sistema economico intrinsecamente fallito che oggi presenta il conto, a Pechino e altrove. Occorre passare il più in fretta possibile a un’economia “circolare”, dove i rifiuti sono preziose materie prime e non scorie da nascondere sottoterra o scaricare in atmosfera.
L’economia circolare è una strada in salita per almeno due motivi: per riciclare occorre molta energia, che deve essere rinnovabile; le leggi della Natura non permettono un recupero dei rifiuti al 100 per cento, una frazione è inevitabilmente dispersa. Tuttavia il percorso è obbligato: le risorse materiali sono limitate e sono tutte ricavate dalla Terra, un’astronave che non può attraccare da qualche parte per fare rifornimento.
Mentre andiamo in stampa, uno stravagante signore si insedia alla Casa Bianca. In campagna elettorale ha dichiarato sconcertanti falsità, guadagnando consensi. Ha scritto che il riscaldamento globale è un “concetto inventato da e per i cinesi” a danno delle industrie degli Stati Uniti; ha promesso il ritorno in grande stile al carbone, la fonte energetica tradizionale più inquinante e dannosa per il clima. Non sappiamo se alle parole seguiranno i fatti, ma una cosa è certa: se c’è qualcuno che si sta fregando le mani per queste sparate sono proprio i cinesi. Il principale concorrente promette un balzo all’indietro di 20 anni, aprendo impreviste praterie sul fronte dell’innovazione sostenibile.
Una pacchia inaspettata. O, chissà, un film con finale a sorpresa.
[Editoriale di Nicola Armaroli pubblicato sul numero di febbraio 2017 della rivista Sapere]