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20 Nov 2020

Ecologia: recensione del libro Pensare come una montagna di Leopold

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Ho appena chiuso l’ultima pagina di Pensare come una montagna. A Sand County Almanac, Piano B edizioni. L’autore, Aldo Leopold, è considerato – non a torto, direi dopo aver letto il libro – uno dei padri dell’ecologismo d’Oltreoceano. Non so per quale ragione l’editore abbia voluto lasciare il sottotitolo in inglese, ma – accostato al fascino di comprendere quel che si verrà a sapere, leggendo queste pagine, su questa “contea di sabbia” – c’è questa parola antica, “almanacco”, che rimanda a una serie di significati tra i quali c’è quello di “diario” su cui si riportano notizie. Ebbene questo è in effetti un diario, un diario di osservazioni sparse che non esito, personalmente, a definire poetiche, nella più alta accezione del termine.

 
Ecologismo ed educazione ambientale

Leopold accosta con estrema semplicità ragionamenti dettati da una ecologia che definiremmo “pratica”, basata sull’osservazione, a momenti di grande afflato verso animali e piante con cui entra in contatto. Il suo sembra essere un ecologismo integrale: in Leopold il motore della sua voglia di conoscere e di quello che racconta in queste pagine è, come per ogni scienziato che si rispetti, la curiosità, ma anche l’amore, intenso e totale, per quel che osserva. Testa e cuore quindi, insieme, per conoscere e raccontare osservando.
I pensieri di Leopold sembrano scritti oggi (e invece la prefazione del libro ci dice che li scrisse prima del 1948, anno in cui tragicamente morì nel tentativo di spegnere un incendio) e questo ci fa ancora più impressione. Molti sono i punti in cui si potrebbe citarlo, ma, prendendone uno a caso, tra i molti sottolineati, riporto (da p. 215):

La conservazione è uno stato di armonia tra gli uomini e la terra. Nonostante quasi un secolo di propaganda, l’ambientalismo procede ancora a passo di lumaca; i suoi stessi progressi, la gran parte, si riassumono in buone intenzioni e dimostrazioni di oratoria. Facciamo ancora un passo avanti e due indietro.

Personalmente è da quando avevo vent’anni che sento parlare di educazione ambientale: adesso che ne ho 50 mi pare che questa “educazione” abbia sortito scarsi effetti su coloro che nel frattempo, dopo di me, sono stati cresciuti e avrebbero dovuto sviluppare una “sensibilità” (ambientale) a seguito di questa educazione. A giudicare da come viene trattato il mondo intorno a noi, non si può che concordare con Leopold («un passo avanti e due indietro», ma a volte ho il sospetto che quelli indietro siano più di due), nonostante siano passati oltre settant’anni dal momento in cui vergò questa riflessione.

 

Ecologia e turismo di massa

Nel libro, diviso in tre parti, non manca una lunga riflessione su un fenomeno che negli Stati Uniti aveva già preso piede: il turismo di massa, “mordi e fuggi”, nella “natura”. Una delle cose che mi impressionavano di più da ragazzo – e anche quando, in età più adulta, ho abitato a Torino – era “l’assalto alla montagna” operato dai comuni cittadini che, tipicamente nel fine settimana, dovendo scegliere la gita di un giorno che non diventasse un’odissea di andata e ritorno dal mare della Liguria, il più vicino, optavano per la montagna (l’arco alpino offre un certo numero di possibilità da Torino). Ho avuto per diversi anni due stanze in affitto al confine sud (quello piemontese appunto) del Parco Nazionale del Gran Paradiso e… li vedevo arrivare.
In tono vagamente canzonatorio-dispregiativo li chiamavamo i “merenderos”: sulle proprie auto, accaldati, nonostante l’aria condizionata (ma il fenomeno era in auge già quando l’aria condizionata era ancora un optional nelle auto), in fuga dalla città bollente, arrivavano a mezza mattina, con il loro carico di masserizie e l’occorrente con tutti i comfort per il picnic fuori casa e… a due passi dall’auto, letteralmente sul ciglio della strada. Da un lato bene: meglio così che averli tutti tra i sentieri, magari a “dimenticare” rifiuti in giro, ma comunque un triste spettacolo, per una natura fruita solo per la mitigazione della temperatura dovuta alla quota e null’altro. Ricordo che fuggivamo presto sui sentieri, prendendo quota in fretta, avvantaggiati dalla logistica dell’aver dormito lì dove loro tra poche ore sarebbero arrivati. Ci sentivamo in questo senso proprio come gli animali che scompaiono quando la densità umana si fa eccessiva (e chiassosa).
Altro che la wilderness agognata da Leopold! Proprio su questo l’autore cita il suo “padre spirituale” Henry David Thoreau, dicendo che la natura selvaggia, la wilderness, salverà il mondo. A più di un secolo e mezzo da quelle parole, nella triste considerazione dello stato in cui si trova oggi questa wilderness, siamo certi – come in una equazione matematica – che il mondo non si salverà.

 

Natura inutile o risorsa?

Già in questi scritti il tono di Leopold è drammatico: egli è perfettamente consapevole di quella che è la “macchina del progresso” in nome della quale tutto sembra essere sacrificato e sacrificabile; tutto ciò che è selvaggio viene considerato come “vuoto” o “inutilizzato” e quindi in definitiva inutile. Egli mostra come la prospettiva debba essere completamente rovesciata: ogni spazio non toccato del mondo è una risorsa e una ricchezza inestimabile e non quantificabile con il solo denaro, ma in quanti gli hanno creduto a suo tempo e gli sono andati dietro? Quanti lo fanno adesso?

 

Da vedere su Netflix

Di recente, sulla piattaforma streaming Netflix è comparso un documentario, Una vita sul nostro pianeta, che è la “testimonianza” del più celebre divulgatore scientifico di Oltremanica, Sir David Attenborough. Egli, sapientemente, parte da alcune date significative della sua lunga e ricca vita (confessa in più di un’occasione di essere una persona molto fortunata). Le grandezze prese in esame sono: la percentuale di “terre selvagge” (la wilderness di cui parla anche Leopold) che rimangono in rapporto alla totalità del mondo; la popolazione mondiale e la CO2 atmosferica in parti per milione. Le riporto in questo grafico che offre uno spaccato di quanto questi fenomeni, dopo essere stati sostanzialmente costanti per millenni, subiscano repentine variazioni in meno di 100 anni (Attenborough, che è del 1926, quest’anno ne ha fatti 94).

La situazione è disperata ma Attenborough propone anche una soluzione e non si limita alla constatazione dello stato attuale delle cose. In questo sembra far eco a Leopold: se riusciamo a restituire spazio alla natura selvaggia, alla wilderness – secondo quella proposta un po’ visionaria che anche Wilson fece qualche anno fa nel suo bel saggio Metà della Terra – ebbene questo, unitamente agli sforzi enormi che comunque dovremmo fare per inquinare meno e per avere una impronta ecologica più leggera e sostenibile, dovrebbe essere sufficiente a tornare, almeno un po’, in equilibrio.

 

La natura riprende i suoi spazi

La natura fa da sé e, se la si lascia fare, riprende i propri spazi. L’interessante esperimento mentale è stato fatto da Alan Weisman nel libro Il mondo senza di noi e nella realtà, per esempio a Chernobyl, questo è accaduto davvero (e proprio a Chernobyl Attenborough gira parte del suo documentario): dovremmo attivamente pensare di ricostruire, per quanto possibile, ecosistemi distrutti, in modo che la vita “che non serve” all’essere umano prolifichi in tutte le sue forme, perché solo la biodiversità delle specie animali e vegetali può salvarci.
Le parole di Attenborough sembrano fare eco a Leopold pensando anche alla contingenza del momento attuale dove, dalle cronache d’Oltreoceano, i segnali sono sinistri e suonano come un vero e proprio canto di morte: gli Stati Uniti, nella costa ovest stanno letteralmente andando in fumo. Gli Stati di California, Oregon e Washington sommano un totale di territorio andato in fumo negli ultimi mesi pari all’Abruzzo. E, solo pochi mesi fa, era toccato all’Australia, che ha bruciato per mesi.
Per finire, non manca qualche contraddizione – soprattutto ai nostri occhi “moderni” – nel libro: Leopold è sempre stato un convinto cacciatore e non ne fa mistero in queste pagine. Questo aspetto stride alle nostre orecchie, ma il suo pensiero non ne viene intaccato e anzi:, forse proprio arrivando da quel mondo, sembra avere ancora un maggior valore.

Luciano Celi
Luciano Celi
Luciano Celi ha conseguito una laurea in Filosofia della Scienza, un master in giornalismo scientifico presso la SISSA di Trieste e un secondo master di I livello in tecnologie internet. Prima di vincere il concorso all'Istituto per i Processi Chimico-Fisici al CNR di Pisa, ha fondato con Daniele Gouthier una piccola casa editrice di divulgazione scientifica. Nel quinquennio 2012-2016 ha coordinato il comitato «Areaperta» (http://www.areaperta.pi.cnr.it), che si occupa delle iniziative di divulgazione scientifica per l'Area della Ricerca di Pisa ed è autore, insieme ad Anna Vaccarelli, della trasmissione radio «Aula 40» (http://radioaula40.cnr.it/). Nel giugno 2019 ha discusso la tesi di dottorato in Ingegneria Energetica.
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