Energia e (geo)politica
La guerra in Ucraina ci riconduce a un vecchio tema, a lungo studiato e molto dibattuto: la connessione tra energia – e, più in generale, le risorse – e la democrazia. Una parziale, ma molto efficace ricostruzione di questo rapporto si basa sull’ottimo libro di Massimo Nicolazzi, Elogio del petrolio (Feltrinelli, 2019).
Come dice Nicolazzi, “ogni greggio è bello a raffineria sua”. In altri termini: quando si parla di petrolio, la destinazione la decidono le raffinerie e non le cancellerie, perché esistono diverse qualità di greggio che, sommariamente, si distinguono per “peso” (ognuno con un suo grado API) e per “acidità”. Ogni raffineria ha quindi la sua “specializzazione” nel trattare certi tipi di petrolio e non altri ed è conveniente per un produttore avere contratti commerciali con la raffineria più appropriata, anche se si trova all’estero anziché, per esempio, costruirsela a casa propria. Insomma, è un po’ come chi coglie le olive per fare l’olio: di solito i produttori non si costruiscono un proprio frantoio, ma portano le proprie olive in una struttura di fiducia che serve diversi clienti. Se diverso è il petrolio in ingresso, diversi saranno anche i prodotti in uscita: ci saranno prodotti di raffinazione con caratteristiche proprie, legate alla materia prima, ma anche sottoprodotti che saranno qualitativamente diversi.
Questo genera mutuo scambio commerciale con altri Paesi e questa indipendenza genera, a sua volta, una interdipendenza che si è resa manifesta a partire dal 1973, quando è nato il Mercato Unico del petrolio e la quotazione NYMEX: qualunque operatore può comprare o vendere petrolio (o suoi prodotti) in qualunque Paese, il che pone molto l’accento sull’interdipendenza e poco sull’indipendenza: è illusorio ogni obiettivo di indipendenza energetica e, come ha sostenuto qualche analista, il mercato del petrolio, più che un oceano, è una grande piscina.
Le cose si fanno interessanti appena dopo, soprattutto se calate nella prospettiva attuale: il 1973 è stato anche l’anno dell’embargo di Egitto e Siria ai Paesi NATO a causa della guerra dello Yom Kippur in Israele. Ne scaturì quel che sappiamo: austerity, gravi ripercussioni per almeno un biennio sui sistemi industriali occidentali e di approvvigionamento, ma anche ricerca di nuovi giacimenti in Europa (in primis la Norvegia).
Le conseguenze, nel breve termine, furono positive per i Paesi detentori dell’oro nero: le entrate aumentarono in maniera considerevole, anche se spesso questa maggiore disponibilità finanziaria non portò notevoli vantaggi alla popolazione. E questo è un punto importante: tra Iran e Iraq, due Paesi esportatori di petrolio, scoppiò una guerra con gravi lutti per la popolazione civile. Questi combattimenti posero fine anche alle alte tariffe petrolifere, poiché come conseguenza della guerra l’Arabia Saudita e altri membri dell’OPEC aumentarono l’estrazione di petrolio, che causò la diminuzione del suo prezzo. La “crisi energetica del 1973” poteva quindi dirsi conclusa. Non volendo essere questa la sede per una disamina strettamente politica sui motivi che condussero a guerre tra Paesi o a “guerre civili” all’interno di uno stesso Paese (si pensi agli anni recenti in Venezuela), ci fermiamo alla semplice constatazione che, indotte da forze esterne o causate da tensioni interne, queste guerre e instabilità politiche hanno alla base l’accaparramento o, quanto meno, il controllo di fonti energetiche (qui tradizionali, fossili).
La globalizzazione del mercato ha però, in questo caso almeno, prodotto dei benefici: scottati dagli eventi del 1973, in epoche successive la catena della fornitura energetica e logistica si è mostrata molto resiliente a shock esterni e a potenziali (o reali) conflitti.
Veniamo al gas, che ci interessa più da vicino nella fase attuale. Se per il petrolio i costi di trasporto sono una parte piuttosto bassa del valore commerciale della risorsa, il gas ha una infrastruttura ben più onerosa. Come dice con una punta di ironia Nicolazzi, poiché i gasdotti girevoli non li hanno ancora inventati, il tubo del gasdotto rende indissolubile il matrimonio tra un (Paese) produttore e il mercato di arrivo, con tutto quel che ne consegue e che abbiamo sotto gli occhi oggi: minacce sulla chiusura della fornitura, che però non viene chiusa perché così si può continuare a finanziare la guerra; sanzioni europee che rendono il rublo carta straccia e contromossa con cui i debiti del Paese aggressore verranno comunque pagati in rubli, comprese le forniture di gas. È inequivocabile: qui chi ha il coltello dalla parte del manico è chi ha il controllo del giacimento.
Adesso, lo stiamo sentendo in questi giorni, forse il gas ci arriverà dai nostri alleati di sempre, gli Stati Uniti, che ce lo porteranno con delle navi, dette appunto gasiere. Giochino non proprio banale, perché il GNL, il Gas Naturale Liquefatto, va portato a circa –160 °C, così da diventare liquido e occupare un seicentesimo dello spazio che occuperebbe a temperatura ambiente, allo stato gassoso, ed essere trasportato come fosse petrolio, a patto di mantenerlo a quella temperatura. Circa il 30% del gas commercializzato nel mondo funziona così, ma il costo energetico non è certo trascurabile e quindi il trasporto incide… senza contare le strutture che, all’arrivo delle navi gasiere, devono rigassificare il liquido. Ne parlano i giornali proprio in questi giorni, lanciando ovviamente l’allarme secondo il quale “siamo indietro” con gli impianti di cui, all’improvviso, si sente la necessità1. Tutto questo al netto di possibili incidenti, sempre dietro l’angolo: dei disastri ambientali causati da petroliere che sversano greggio nei mari e negli oceani del mondo causando danni incalcolabili, ormai abbiamo perso il conto.
Per dare una stima, se il costo del petrolio vale circa l’1% del valore del carico, per il gas siamo già, come minimo, al 15%. A fronte di questi costi maggiori c’è indubbiamente la libertà del mercato: come abbiamo detto, con il gasdotto il gas va dove lo porta l’infrastruttura; con le navi va dove lo porta il prezzo. Anche qui però, in filigrana, non si può sentire un certo odore di geopolitica: tutto questo trambusto della guerra fa sì che gli Stati Uniti riaffermino – anche sotto questo punto di vista – il loro (pre)dominio: acquisteremo gas “made in USA” e amen.
In relazione alla resilienza e al mercato, possiamo senz’altro citare due episodi recenti, antecedenti alla guerra in corso. Il primo riguarda l’uccisione di Gheddafi e la conseguente caduta del suo quarantennale regime. Abbiamo temuto che per le nostre raffinerie non arrivasse più petrolio da quelle parti ma, tre mesi dopo, il greggio più importato in Italia era azero perché, per i nostri impianti di raffinazione, era quello più prossimo per caratteristiche: come sostiene Nicolazzi, si andò al mercato e si comprò. Magia del mercato globalizzato.
Il secondo caso riguarda proprio l’Ucraina: la guerra del Donbass, di cui gli echi neppure arrivavano qui da noi, faceva il suo corso. Di sopra ci si uccideva in maniera anche molto efferata, ma il gas passava sottoterra: la Russia incassava dalle vendite e gli ucraini dal transito. Poi c’è da dire che i tedeschi, forse sfavoriti dalla logistica della pipeline ucraina e fors’anche impauriti dal passaggio del tubo da tutti questi Stati non proprio tranquilli, hanno fatto accordi per i fatti propri attraverso l’intermediazione finlandese, realizzando con i russi il North Stream, attivo dal 2011 (per il quale era stato previsto, dato il successo, il North Stream 2, completato e pronto a funzionare dal dicembre 2021). È agli onori (e alle polemiche) della cronaca anche questo evento, per il quale, a fronte di sanzioni economiche molto dure, comminate alla Russia per l’invasione dell’Ucraina, il gas arriva comunque puntuale e sempre dalla Russia, come un orologio svizzero, rendendo evidente la contraddizione e tutte le chiacchiere sul “ricatto energetico” e sul “rimanere al freddo e al buio” (al buio perché molta elettricità viene prodotta attraverso il gas…).
Primo corno del problema: energia e democrazia
Come si intuisce da questo rapido excursus, dove ci sono risorse energetiche, c’è instabilità sociale e politica e, quasi sempre, guerra. Non è una novità, non si pretende di essere originali, ma un ripasso è sempre utile perché capire il passato ci aiuta (o meglio: dovrebbe aiutarci) a capire da che parte andare in futuro. Torniamo per un attimo ai Paesi produttori. I ricavi della vendita petrolifera hanno in taluni casi – come quello dell’Arabia Saudita e del Kuwait – costituito un vero e proprio Stato capace di vivere, in sostanza, di rendita. Con una dinamica nota, la rendita sostituisce la tassazione e lo scarso o nullo rilievo di quest’ultima nella vita sociale ha come effetto immediato la marginalizzazione della popolazione dalla politica e dai processi decisionali. Gli ingenti flussi economici finanziano il welfare – soprattutto in forma di assunzioni pubbliche – diventando strumento di consenso e quindi di sopravvivenza e stabilità dell’élite. Il ricavo di fatto misura l’ampiezza del budget statale. Il do ut des è micidiale: il petrolio dà potere, ma tiene prigioniero chi ha il potere.
Qualcuno la chiama la maledizione del petrolio (the curse of oil)2, caso particolare di una maledizione di più ampia portata, che esamineremo nel prossimo paragrafo. Non solo, quindi, vi sarebbe una correlazione tra ampiezza della rendita e potere delle élite, ma anche la complessiva delega della popolazione alla gestione della cosa pubblica, generata dal grande afflusso di cassa e sostenuta dal consenso “comprato”. Questa miscela conduce quindi, nel tempo, a derive di tipo autoritario. Ross ha coniato la massima «More petroleum, less democracy».
Ma tutto questo benessere gratuito sembra presentare il conto: dopo il 1973 gli Stati produttori di petrolio hanno tassi demografici in repentina salita – che vi sia una correlazione stretta tra popolazione ed energia è noto3 – molto al di sopra della media mondiale. Da quegli anni la popolazione saudita è quintuplicata; nigeriani, venezuelani e iracheni più che triplicati e nessuno dei produttori meno che raddoppiato. Ma essere di più aggrava la necessità della rendita – che ha senso se immaginata pro capite e non in senso assoluto – e se, come accaduto nel 2014, il crollo dei prezzi a fine anno dimezza la rendita, e come minimo si dimezza anche la possibilità che le élite hanno di “comprare” consenso. Da qui la necessità – per rimanere al comando – di diversificare o, se non ci si è pensato per tempo, cercare di aumentare la rendita in qualche altro modo, per esempio con una guerra.
Secondo corno del problema: impoverimento del territorio
Benché fino a questo momento si sia parlato solo di energia – e nello specifico di energia “tradizionale”: petrolio e gas – il titolo di questo articolo è “risorse e democrazia” e non “energia e democrazia”. Infatti, quanto detto sin qui vale, mutatis mutandis, anche per le risorse non rinnovabili di altro tipo, come minerali necessari alle tecnologie (dalle batterie ai microprocessori) o, nel piccolo, altri materiali come il marmo, per citare un caso italiano, che sono quasi esclusivo appannaggio di una zona molto ristretta, per esempio la provincia di Massa-Carrara per la qualità di questo prodotto.
La “maledizione” che quindi era confinata al petrolio diventa di più ampia portata perché il meccanismo è lo stesso: ma di cosa si tratta esattamente?
Wikipedia ne fornisce la definizione che segue: «La locuzione maledizione delle risorse (o anche paradosso dell’abbondanza o oro falso) si riferisce al paradosso per cui i Paesi e le regioni con un’abbondanza di risorse naturali, in particolare di risorse non rinnovabili come minerali e combustibili, tendono ad avere minore crescita economica e peggiore sviluppo rispetto ai Paesi con meno risorse naturali. Questo si ipotizza accada per molteplici ragioni, inclusi il declino nella competitività degli altri settori economici, la volatilità dei redditi del settore delle risorse naturali dovuta all’esposizione alle oscillazioni del mercato globale delle materie prime, la cattiva amministrazione governativa delle risorse, nonché la debolezza, l’inefficacia, l’instabilità o la corruzione delle istituzioni (in qualche modo dovuta alla facile distrazione del flusso reale o previsto dei redditi derivanti dalle attività estrattive)»4.
Uno dei pochi modi indiretti per saggiare la democrazia di un Paese è andare a vedere il suo indice di Gini. In realtà, lo sappiamo, l’indice misura la disuguaglianza sociale e la ricchezza, ma misurare queste grandezze, così come la “permeabilità della scala sociale” – ovvero la probabilità che in un Paese il figlio di un operaio diventi un dirigente – è un buon punto di partenza. Come si vede dal grafico qui sotto, se si mettono un po’ di Paesi produttori, intanto si vede che i dati in alcuni casi (come quello del Kuwait) non esistono proprio, sono “non pervenuti”, mentre per altri, come gli Emirati Arabi Uniti, sono sospettosamente costanti, segno di una scarsa trasparenza e di una mancata freschezza del dato stesso. Altri Paesi, come il Venezuela, hanno un flusso di dati che a un certo punto si interrompe. A completamento abbiamo messo il dato dell’Italia (che, come si vede, non ha propriamente un indice lusinghiero – più alto è l’indice, maggiore è la disuguaglianza) e quello degli Stati Uniti (che in questo fa peggio di noi, ma lo sapevamo).
Avendo, chi scrive, vissuto a lungo nella provincia di Massa-Carrara, ha potuto riscontrare la dinamica della maledizione delle risorse: un esercito di persone (circa 10 mila) che, a inizio Novecento, ogni settimana (perché tutta la settimana rimaneva lassù al lavoro) dava l’assalto alle montagne, le Alpi Apuane, e, con la sola forza delle braccia e poi con l’esplosivo, cavava marmo, trasportandolo molto pericolosamente lungo le “vie di lizza”, sentieri con una pendenza paurosa – prima si perdeva quota e si scendeva a valle e prima si faceva – tali che oggi, a salirli, bisogna in certi tratti usare le mani tanto sono ripidi. I tempi sono cambiati: la tecnologia e il petrolio hanno modificato il lavoro e il rapporto che il cavatore aveva con la montagna. A un secolo di distanza, queste figure che nel locale immaginario collettivo hanno un posto d’onore, si sono trasformate in operai specializzati, addetti cava: vanno su la mattina con jeep potenti e tornano a casa alla sera, con una produttività pro capite incommensurabile rispetto a quella dei loro colleghi di 100 anni prima e, rispetto a questi, non sono che un manipolo di uomini (800 su tutte le Apuane, ma in tempi recenti forse ancora meno). Le città di Massa e Carrara, le comunità, però, non stanno molto meglio rispetto a prima, anzi: questo “oro bianco” ha fatto la ricchezza e la fortuna di pochi – locali sceicchi ed emiri – con destinazioni d’uso più che discutibili: siamo passati da Michelangelo – che andava a scegliersi il marmo per il suo David, la statua che ancora oggi è considerata da moltissimi esperti d’arte “l’oggetto artistico più bello che sia mai stato creato dall’uomo”5 – a usare il marmo per farne piastrelle da bagno, quando non materiale inerte da impiegare come base per le strade poi ricoperte di asfalto6.
Massa e Carrara dovrebbero dunque essere province ricche, invece sono luoghi modesti, se non proprio poveri, grazie anche a una sciagurata politica industriale e a una congenita incapacità della classe dirigente locale che volle, a suo tempo, la ZIA (Zona Industriale Apuana), dove ospitare un’industria chimica pericolosa come la Farmoplant, costretta alla chiusura per “scoppio”7 alla fine degli anni ’80 del secolo scorso. Basta scaricare uno dei recenti “rapporti sulla povertà” della Regione Toscana – da cui l’immagine qui di seguito è tratta – per rendersene conto.
Nella figura8 è indicata l’incidenza percentuale delle famiglie in povertà assoluta. Forse un dato non del tutto significativo, ma per il quale rimane il caso “anomalo” della provincia apuana, che dovrebbe essere, grazie al marmo che si estrae a un ritmo di 5 milioni di tonnellate all’anno, ricca e invece si ritrova nella “buona compagnia” di altri territori “depressi”.
Possiamo immaginare che paradossi simili accadano un po’ ovunque, soprattutto dove la risorsa, che si trasforma in ricchezza, è detenuta nelle mani di pochi.
Soluzione (energetica): l’uso massiccio delle rinnovabili
Come abbiamo detto qui, la transizione energetica non è più ormai una scelta, ma un obbligo. Petrolio e gas si stanno esaurendo sempre più rapidamente9 – siamo pur sempre otto miliardi di individui, in crescita… – e per il 2035 questi due idrocarburi saranno così “rari e preziosi” che sarà impossibile immaginarli in grado di mandare avanti un’economia, come accade adesso.
Sono bastati, poco più di un mese fa, i “venti di guerra” (purtroppo verificatisi), per far dire al nostro presidente del Consiglio la parola che dovrebbe essere bandita dal vocabolario energetico: (riapertura delle centrali a) carbone.
L’evoluzione di quella dichiarazione di un mese fa sembra condurre (ancora? Ancora!) al gas, stavolta americano10: questa, insieme a mille altre, poteva essere l’occasione per cambiare direzione, per dare una svolta definitiva verso le rinnovabili e invece abbiamo una classe politica che se non è pavida è connivente.
Anche Agostino Re Rebaudengo, presidente di Elettricità Futura (che consocia un bel numero di imprese sotto il marchio di Confindustria, quindi non proprio un’associazione ambientalista…), arriva a dire che in 3 anni, se le Regioni ne autorizzassero l’installazione, potremmo avere 60 GW in più di rinnovabili, ovvero più del doppio di quanto è installato oggi, tagliando così del 20% le importazioni di gas11. Ma il suo appello sembra cadere nel vuoto.
C’è bisogno di ricordare perché le rinnovabili – fotovoltaico ed eolico in primis – ci permetterebbero di avere anche un mondo più sicuro, oltre che più pulito? Facciamo un ripasso:
1. Centrali nucleari, depositi di carburante e pozzi petroliferi sono luoghi di “energia concentrata”, alcuni dei quali – al netto di esplosioni, combustioni e quant’altro – pericolosi ben oltre l’evento: basti ricordare gli incidenti (Chernobyl, Fukushima) o la guerra, con il razzo russo esploso a 500 metri da uno dei reattori della nona centrale nucleare più grande del mondo, dieci volte la potenza installata rispetto a quella di Chernobyl12. Sono obiettivi sensibili e, per quanto sicuri, sono meno sicuri di quel che si pensa, sia perché gli eventi naturali aggravati dal cambiamento climatico possono avere una portata non prevista dai progettisti (e Fukushima docet, sebbene pare che moniti su precedenti tsunami avvenuti in zona dicessero in modo chiaro che costruire una centrale nucleare sotto una certa altezza fosse altamente sconsigliato), sia perché non si sa come va il mondo e, com’è accaduto adesso, in un attimo ci si ritrova in guerra. Certo, noi non lo siamo, ma se ricordiamo minimamente la storia, sappiamo che la scintilla che ha fatto scoppiare tutte le guerre (e in particolare i due conflitti mondiali) è stata sottovalutata ed è sembrata sempre una questione locale, solo una bega tra altri Stati, magari lontani da noi.
2. Viceversa, la massiccia diffusione delle rinnovabili renderebbe vano il concetto stesso di “energia concentrata” perché, al contrario, l’energia sarebbe diffusa sul territorio e formerebbe, come da qualche parte già avviene, una rete. Le reti, lo sappiamo, sono resilienti per loro natura e chi ha qualche rudimento di reti di calcolatori può confermarlo: se viene colpito un nodo, l’informazione passa attraverso gli altri nodi. Magari fa un giro un poco più lungo, ma arriva lo stesso e la rete funziona comunque. Chi volesse impossessarsi dell’energia prodotta da una comunità energetica, che cosa dovrebbe fare? Sequestrare tutti i pannelli fotovoltaici di tutte le case? Un po’ bizzarro, no? Il Sole e il vento sono gratuiti e abbastanza “democraticamente” distribuiti: alcuni, come noi italiani, sono più fortunati, altri meno, ma potrebbero facilmente mettersi in atto meccanismi di compensazione. Nessuno può “chiudere i rubinetti” del Sole o del vento a qualcun altro.
Insomma, la transizione porterebbe benefici non solo all’ambiente, inteso in senso stretto, ma anche a quel particolare ambiente che è la sfera della sociale e necessaria convivenza tra popoli, la cui solidarietà reciproca non dovrebbe essere più messa alla prova da una guerra.
Note
1 Un titolo su tutti: https://www.repubblica.it/economia/2022/03/21/news/rigassificatori_litalia_e_indietro_ci_sono_solo_tre_impianti_per_trasformare_il_metano-342317399/
2 Ross M. L. (2012), The Oil Curse, Princeton University Press, Princeton.
3 Si veda il primo grafico di questo articolo: http://www.saperescienza.it/rubriche/l-opinione-di/le-trappole-del-progresso-29-9-2021
4 Wikipedia, alla voce: “Maledizione delle risorse”.
5 https://web.archive.org/web/20120728234934/http://kigeiblog.myblog.it/archive/2010/01/04/il-david-di-michelangelo-storia-e-descrizione-di-una-emozion.html
6 https://greenreport.it/news/economia-ecologica/cave-inerti-pietre-ornamentali-ci-guadagna-toscana/
7 https://it.wikipedia.org/wiki/Farmoplant
8 Tratta dal quarto rapporto (2020) “Le povertà in Toscana”, p. 16, scaricabile dal sito della Regione.
9 https://www.cnr.it/it/comunicato-stampa/10795/sempre-piu-difficile-estrarre-i-combustibili-fossili
10 https://www.ilsole24ore.com/art/l-italia-va-avanti-rigassificatori-prossimo-e-mare-ecco-mappa-AEqx3wIB
11 https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2022/03/12/gas-con-ok-a-rinnovabili-al-2025-27mld-spesa-annua_2d9c7886-d361-4c38-b331-4b6cbce42dfb.html
12 https://www.repubblica.it/esteri/2022/03/04/news/centrale_cose-340218136/