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23 Mar 2021

Il morso del Jack Russell Terrier

Odette Abramovich

Odette Abramovich
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L’Ottocento si era appena affacciato sui calendari quando il reverendo John Russell, per gli amici Jack, incrociò alcune razze canine. Fox terrier, bulldog, beagle… Ne tirò fuori un minuto, sfrontato e gagliardo incrocio. Un cacciatore come lui.

Spietato con le volpi, ben presto il cucciolo divenne irrinunciabile compagno di battute venatorie. Prese il nome del suo selezionatore: Jack Russell Terrier. Nella Gran Bretagna di inizio secolo XIX, il reverendo non poteva certo presentire ciò che sarebbe accaduto ai discendenti del suo predatore.

 

La storia di Pippo e Anna

 

Duecentoventi anni dopo, Pippo mantiene intatte le caratteristiche del suo antenato. Ma non ci sono i boschi del Devonshire nel suo quartiere al centro di Modena. Figurarsi la selvaggina. Nel suo appartamento di ottanta metri quadri convive con Anna e sogna tutt’al più di acciuffare qualche piccione. La sua padrona lo ama come un figlio. Anche se, a giudicare dall’età, sarebbe più corretto scrivere: come un nipotino.  
Anna da qualche tempo è costretta ad assumere farmaci anticoagulanti. “Con il sangue non si scherza”, aveva raccomandato il medico un paio di anni prima. Da quel momento, attorno alle pillole anti-ictus avevano orbitato tutte le giornate di Anna.
Per questo motivo nessuno quel giorno in ospedale era disposto a sottovalutare il problema. Nessuno, a parte Anna. Per la proprietaria si era trattato solo di un insignificante morso. Per i medici invece era un campanello d’allarme. Erano costretti a compilare il famigerato rapporto di lesione provocata da animale. La procedura era partita inarrestabile.
La segnalazione era giunta sulla scrivania del veterinario area A, il quale è tenuto a contattare sia il lesionato che il proprietario del cane morsicatore. Nel caso specifico aveva risparmiato una telefonata. Le due figure coincidevano.
Quindi il veterinario dell’Ausl, visitato il cane e constatata l’entità del danno, in base alla normativa nazionale in materia di tutela dell’incolumità pubblica dalle aggressioni dei cani aveva sottoposto Pippo a una specifica ordinanza sindacale a carico di Anna.
Tradotto dal burocratese: per il mordace Pippo era scattato il regime di libertà vigilata canina, che comporta sia la visita comportamentale che l’obbligo di museruola.
Il protocollo, come la vita, sa essere ironico. A mettere la museruola a Pippo avrebbe dovuto pensare Anna. Peccato che il cane avesse ormai strumentalizzato il morso. Se era risultato efficace addentare la signora, se cioè era stato lasciato finalmente in pace proprio grazie a quell’azzannata, perché mai Pippo non avrebbe dovuto mordere nuovamente la padrona per evitare l’odiosa museruola? Erano certamente questi i pensieri che abbaiavano in testa al Jack Russell Terrier. Tanto che Anna realizzò immediatamente che sarebbe stato impossibile manipolare il suo adorato pet. Fu allora che squillò il mio telefono.
Come veterinaria esperta in comportamento animale sono chiamata a risolvere convivenze complicate. Casi di aggressività, escrementi depositati in luoghi off-limits, cani che tirano troppo il guinzaglio, gatti che svegliano i proprietari di notte… In ogni attività, a un’anamnesi dettagliata devono corrispondere diagnosi e cure. Ma chi, come me, ha un approccio cognitivo-zooantropologico preferisce partire sempre da una domanda. Perché questo animale si comporta così? Un interrogativo che, purtroppo, talvolta può assumere connotati drammatici: cosa porta un cane a sfigurare il suo proprietario al punto di procurargli ben tre interventi maxillo-facciali?

 

Perché un cane diventa aggressivo?

 

Troppo spesso dietro cronache di aggressioni si celano storie di ordinaria inconsapevolezza. Il comportamento è generato da uno stato mentale. Il cervello è un sistema complesso con componenti  posizionali (motivazioni, emozioni e arousal) e componenti elaborative (rappresentazioni, funzioni cognitive e metacomponenti). Le prime determinano il carattere, le seconde il modo di rappresentarsi ed elaborare il mondo.
Se comprendiamo i meccanismi che le governano, possiamo lanciarci in un magnifico viaggio nell’intelligenza dei nostri amici a quattro zampe. Possiamo perfino trovare soluzioni efficaci per sistemi in squilibrio. Proprio come quello in cui erano precipitati Anna e Pippo.
A Pippo era inutile prescrivere l’abusato psicofarmaco che frena la reattività dei pet. Pippo meritava semmai una vita diversa. Durante l’anamnesi era venuto a galla che il terribile Terrier non era mai uscito per una sgambata. E che era costretto a produrre feci e urine sul balcone. Come se non bastasse, da quattro anni, dopo ogni evacuazione, Pippo era trattenuto controvoglia per essere ripulito con salviette alcoliche. Un incubo. Un vero e proprio maltrattamento non riconosciuto. Nei panni del cagnetto chi non avrebbe digrignato e affondato i denti? Non era nato per occupare il nido lasciato vuoto dai figli e dai nipoti di Anna. Era venuto al mondo come tutti i cani per correre, scavare, cercare, esplorare, comunicare, possedere, predare… In poche parole: per porre in essere le motivazioni di specie.

 

Libertà e bisogno di socializzare: per i pet, come per gli esseri umani

Dal marzo 2020 possiamo empatizzare con Pippo. Cogliamo ogni sfumatura della sua frustrazione motivazionale. La pandemia di Covid-19 ha limitato la nostra libertà. Per mesi e mesi non abbiamo potuto mettere in atto le nostre motivazioni di specie come quella sociale, perlustrativa e perfino di corteggiamento. Tale insoddisfazione ha fatto da apripista a un potente disagio emozionale. Schiere di psicologi redigono report puntellati di casi di ansia, depressione, attacchi di panico ed eccessi di ira. D’altro canto, non è forse vero che motivazioni ed emozioni sono indissolubilmente legate?
Una bella matassa da districare per gli psicologi come per i veterinari esperti in comportamento animale. Pippo non aveva potuto socializzare durante la sua età evolutiva. Avrebbe avuto bisogno di uscire all’aria aperta per recuperare i salubri stimoli, liberare endorfine e uscire dal disagio. Ma non sarebbe stata una passeggiata per chi l’avrebbe condotto al guinzaglio. La sua carenza rappresentazionale nel breve termine si sarebbe risolta in paura con reazioni di attacco e di fuga. Insomma, dopo anni di confinamento domestico Pippo avrebbe preferito restare in casa.
Gli stati patologici raggiungono generalmente una sorta di equilibrio. Tanti italiani si sono sentiti spiazzati a maggio 2020. Concluso il severissimo lockdown, molti si sono sentiti a loro agio protetti dalle proprie mura. C’è voluto un po’ per riabituarsi al contatto esterno. Per Pippo il percorso sarebbe stato analogo. Avremmo dovuto spronare le nicchie neurali attraverso l’esercizio quotidiano per indurre un cambiamento cerebrale e quindi comportamentale. Le endorfine liberate grazie all’esercizio avrebbero infine promosso il suo benessere psicofisico. Pippo sarebbe uscito non senza fatica dal suo stress cronico. Uno sforzo moltiplicato per due. Per salvare il Jack Russell Terrier dal canile a cui spesso sono condannati i cani recidivamente mordaci come lui, avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche soprattutto la sua adorata Anna.

Odette Abramovich
Odette Abramovich
Odette Abramovich Terol è medico veterinario esperto in comportamento. Scrive per Repubblicasalute.it. Esercita nell’ambito della riabilitazione comportamentale degli animali da compagnia e come veterinaria esperta in interventi assistiti con gli animali (IAA). Nel 2016 ha vinto il Premio Flambo, Etica Cultura Scienza e Sport. Per l’Ospedale Veterinario Gregorio VII di Roma è stata responsabile del settore di medicina comportamentale per cani e gatti. Spagnola, ma adottata dalla città di Bologna, si è laureata a Madrid e a Parma ha conseguito il master in medicina comportamentale cognitivo-zooantropologica. Mamma di due bambini, è autrice di libri e giochi nell’ambito della pet education.Per saperne di più: www.odetteabramovich.it   /   www.facebook.com/MondoOdette
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