Il numero dei casi accertati d’infezione da SARS-CoV-2 a livello planetario sfiora i 120 milioni, dei quali oltre 3 milioni in Italia, dove le morti da/per/con Covid-19 hanno superato la fatidica quanto drammatica soglia di 100.000 persone, a fronte di oltre 2.600.000 decessi su scala globale. Intanto, l’elenco delle varianti di questo temibile betacoronavirus si arricchisce di settimana in settimana di qualche “new entry”.
Le nuove varianti del virus
È il caso della rarissima variante “thailandese”, identificata pochi giorni fa a Varese, che si aggiunge alla ben più comune variante “inglese” (quest’ultima ormai dilagante nel nostro, così come in molti altri Paesi europei), nonché alle varianti “brasiliana”, “sudafricana”, “nigeriana”, “spagnola” e “scozzese”.
Si tratta di quelle che la letteratura biomedica internazionale definisce variants of concern (VOC), che sarebbero sostanzialmente riconducibili a isolati/ceppi di SARS-CoV-2 la cui capacità di infettare i nostri consimili e/o di inficiarne a vario titolo la risposta immunitaria nei confronti del virus risulterebbe, a seconda dei casi, accresciuta oppure più o meno compromessa o alterata.
Beninteso, anche SARS-CoV-2 soggiace nel tempo, al pari di tutti gli altri RNA-virus (virus influenzali in primis!), a continui fenomeni di mutazione del proprio genoma, una parte dei quali sfavorevoli, a fronte di altri vantaggiosi per il virus stesso. Fra questi ultimi andrebbero certamente annoverati gli eventi mutazionali a carico del gene codificante per la proteina spike (proteina S) e, più in particolare, di quella sua regione nota come “receptor-binding domain” (RBD), grazie alla quale SARS-CoV-2 sarebbe in grado di penetrare all’interno delle nostre cellule, così come di quelle delle varie specie animali che si sono dimostrate naturalmente o sperimentalmente sensibili nei riguardi dell’infezione.
Le varianti e gli animali: il caso dei visoni
Seppur con differenti gradi di suscettibilità, infatti, cani, gatti, furetti, criceti, conigli, suini, macachi, tigri, leoni e altri animali ancora sarebbero tutti recettivi nei confronti del virus.
Un discorso a parte merita, in un siffatto contesto, il visone, in quanto non soltanto si sarebbe rivelato suscettibile nei confronti dell’infezione, ma anche e soprattutto perché una particolare variante, denominata “cluster 5” e contraddistinta dalla mutazione Y453F, si sarebbe selezionata e sviluppata negli allevamenti intensivi di tale specie sia nei Paesi Bassi che in Danimarca. Nel visone, che avrebbe acquisito l’infezione dall’uomo (leggasi allevatori di visoni), il virus sarebbe andato incontro, pertanto, a una serie di eventi mutazionali a seguito dei quali si sarebbe selezionata e sviluppata la succitata variante, che il visone avrebbe di lì a breve “restituito” all’uomo. Si tratta di un chiaro esempio di “spillover” versus “spillback”, cioè di “zoonosi inversa” o “antropozoonosi” versus “zoonosi”.
Quello del visone sarebbe, allo stato attuale delle conoscenze, l’unico esempio documentato – a mia memoria, quanto meno – di una specie animale che sarebbe stata capace di “restituire” all’uomo, per così dire, SARS-CoV-2 in forma mutata (cluster 5) a seguito di una pregressa acquisizione del virus.
Le conoscenze sin qui maturate in ambito d’interazione SARS-CoV-2 uomo-visone-uomo ci consegnano, a mio avviso, una lezione quanto mai importante, che andrebbe tenuta nella massima considerazione (anche) al fine di poter delineare le traiettorie future di SARS-CoV-2 e delle sue svariate quanto numericamente crescenti varianti.
Troppo spesso, infatti, queste ultime vengono “fotografate/radiografate” nella pressoché esclusiva dimensione del loro impatto sulla nostra specie (un’ulteriore testimonianza del nostro “antropocentrismo” e “antropomorfismo”!). Invece sarebbe quanto mai utile e fruttuoso, per una miriade di ragioni, analizzare in maniera approfondita – in ossequio all’imperituro quanto salvifico concetto della “One Health” – le dinamiche d’interazione di ciascuna delle suddette varianti con le diverse specie animali domestiche e selvatiche. Ciò al fine di caratterizzarne i rispettivi gradi di suscettibilità (o di resistenza) nei confronti del virus e, cosa ancor più rilevante, l’eventuale capacità da parte delle varianti di consentire lo sviluppo e la conseguente propagazione di ulteriori nuove “VOC” di SARS-CoV-2, come tristemente accaduto una manciata di mesi or sono negli allevamenti di visoni olandesi e danesi.