Secondo il rapporto del Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie (ECDC), dal 2018 ad oggi in Italia sono stati registrati 350 nuovi casi di infezioni da batteri resistenti agli antibiotici carbapenemi, concentrati in massima parte nell’area nord-ovest della Toscana.
I microrganismi responsabili, denominati batteri New Delhi, appartengono al gruppo delle Enterobacteriaceae, una famiglia di batteri Gram-negativi che popolano comunemente l’intestino dell’uomo e di altri animali. Patogeni opportunisti, possono causare una grande varietà di disturbi: spesso si tratta di infezioni del tratto urinario o diarrea, ma in pazienti immunodepressi, particolarmente suscettibili all’attacco, sono state documentate anche polmoniti, meningiti e sepsi.
Secondo il rapporto del Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie (ECDC), dal 2018 ad oggi in Italia sono stati registrati 350 nuovi casi di infezioni da batteri resistenti agli antibiotici carbapenemi, concentrati in massima parte nell’area nord-ovest della Toscana.
I microrganismi responsabili, denominati batteri New Delhi, appartengono al gruppo delle Enterobacteriaceae, una famiglia di batteri Gram-negativi che popolano comunemente l’intestino dell’uomo e di altri animali. Patogeni opportunisti, possono causare una grande varietà di disturbi: spesso si tratta di infezioni del tratto urinario o diarrea, ma in pazienti immunodepressi, particolarmente suscettibili all’attacco, sono state documentate anche polmoniti, meningiti e sepsi.
In Toscana era già nota la presenza di ceppi di Klebsiella pneumoniae resistenti ai carbapenemi, anche prima dell’allarme sanitario di cui si parla in questi giorni. Si trattava, tuttavia, di una resistenza diffusa da tempo sul territorio, presente in varie parti del mondo.
Quello che ha suscitato scalpore, invece, è stato l’insorgenza di una seconda forma di resistenza, sempre ai carbapenemi, veicolata da un gene diverso e probabilmente trasmissibile tra Enterobacteriaceae di ceppi differenti.
Si tratta del gene blaNDM-1, che codifica per la proteina NDM (New Delhi metallo-β-lattamasi). NDM è un enzima in grado di idrolizzare carbapenemi e molti altri tipi di antibiotici beta-lattamici, come le penicilline e le cefalosporine.
Si ritiene che i ceppi dotati di blaNDM-1 si siano sviluppati in India, da cui il nome New Delhi; dopo il primo isolamento in Svezia, nel 2008, sono stati documentati focolai infettivi anche in Pakistan e Regno Unito.
Le Enterobacteriaceae dotate del gene blaNDM-1, combinato ad altri geni di resistenza, restringono notevolmente il numero di antibiotici efficaci nella terapia.
Comunque, è stato riscontrato che i batteri multiresistenti toscani sono ancora suscettibili alla fosfomicina e alla colistina. I contagiati, quindi, possono essere curati, ma occorrerà prestare la massima attenzione perché non si diffondano ulteriori resistenze.
Non è ancora chiaro il luogo esatto da cui ha avuto origine l’epidemia, ma al momento i focolai sembrano essere stati circoscritti con successo.
La vicenda dei batteri New Delhi è solo uno degli innumerevoli casi di multiresistenza batterica che si stanno sviluppando in Italia e all’estero.
Vari ceppi microbici, soprattutto Gram-negativi, negli ultimi anni sono diventati un problema sanitario a livello mondiale, a causa della facilità con cui sviluppano resistenze agli antibiotici. È stato stimato che il fenomeno causa la morte di circa 700.000 persone ogni anno.
Lo sviluppo avviene spesso in ambiente ospedaliero, dove l’alto tasso di pazienti immunodepressi favorisce il contagio, e l’uso continuativo di antibiotici esercita una forte pressione selettiva.
Questi organismi diffondono i geni della resistenza attraverso piccole sequenze di DNA circolare denominati plasmidi; i plasmidi non fanno parte del genoma principale, si autoreplicano e possono essere facilmente trasferiti da un batterio all’altro, per coniugazione.
Scambiandosi i plasmidi i batteri possono diventare resistenti, potenzialmente, a quasi tutti gli antibiotici esistenti. Nel caso dei batteri New Delhi, come già accennato, un plasmide trasporta il gene blaNDM-1, che codifica per un enzima inattivatore.
Altri geni possono però avere funzioni diverse: alcuni, per esempio, modificano il sito batterico bersaglio dell’antibiotico, cosicché quest’ultimo non è più in grado di riconoscerlo.
Altri determinano la formazione di pompe di efflusso: il patogeno dispone canali transmembrana sulla sua superficie, che riconoscono selettivamente determinati antibiotici; quando l’antibiotico entra all’interno della cellula batterica, viene subito trasportato fuori, senza avere il tempo di espletare la sua funzione.
Esistono inoltre meccanismi di resistenza intrinseci, indipendenti dai plasmidi. Alcuni batteri, per esempio, rafforzano la membrana esterna in risposta a condizioni ambientali sfavorevoli, come alte temperature o presenza di agenti nocivi, il batterio è in grado di modificare rapidamente la sua espressione genica, cambiando di conseguenza la sua morfologia.
Un meccanismo di resistenza comune nei Gram-negativi è dato, per esempio, dall’inspessimento della membrana esterna; il batterio vi aggiunge lipopolisaccaridi che ne rinforzano la struttura, stringendo per così dire le maglie della rete. In questo modo alcuni antibiotici non riescono più ad attraversare la parete, ed il patogeno sopravvive all’attacco.
Al momento sono in corso di studio numerosi antibiotici che possano far fronte alle suddette resistenze. I peptidi antimicrobici di origine naturale (AMPs) sono un’alternativa molto promettente ai farmaci comunemente in uso; prodotti da svariati tipi di piante, batteri e animali, queste molecole sono già in corso di ottimizzazione per future terapie contro ceppi multiresistenti.
Credits immagine: NIAID [CC BY 2.0]