Un nuovo studio pubblicato su Nature, effettuato sui topi e in vitro sulle cellule umane, indica che il declino cognitivo potrebbe non essere una condizione permanente, e apre la possibilità di intervenire invertendo il processo.
Cosa succede quando il cervello invecchia?
Un rilevante studio neuroscientifico effettuato da Paras S. Minhas et al. a proposito della correlazione tra il declino cognitivo e l’infiammazione dei macrofagi del cervello (microglia) apre nuove possibilità per la ricerca medica.
I macrofagi sono grandi cellule fagocitanti presenti nel sangue e nei tessuti connettivi. Si differenziano a seconda degli organi, nel caso del cervello e del midollo spinale vengono definiti cellule della microglia. Quando un patogeno supera la barriera ematoencefalica, ovvero quella struttura funzionale che regola selettivamente il passaggio di sostanze chimiche tra il cervello e il resto dell’organismo, sono le cellule immunitarie della microglia a rappresentare la prima linea di difesa. In questo caso il fabbisogno energetico dei macrofagi aumenta molto. Tuttavia, con l’invecchiamento questi fagociti trovano limitate o chiuse le vie metaboliche necessarie per la risposta immunitaria e fondamentali per la salute cognitiva, e interrompono le proprie funzioni per esaurimento energetico.
Uno studio su cognizione e risposta immunitaria
Per studiare questa situazione il team, guidato dal dottorando in Neuroscienze alla Stanford University Minhas, ha analizzato il percorso cellulare di un lipide con funzione di segnale simile a un ormone, la prostaglandina E2 (PGE2), la cui produzione, sia nei topi che negli umani, aumenta in tutti macrofagi del corpo durante l’invecchiamento e le malattie neurodegenerative. Il metabolismo dei macrofagi utilizza i processi biochimici della glicolisi e della fosforilazione ossidativa mitocondriale per il proprio rifornimento energetico, ma l’aumento del messaggero lipidico PGE2 attiva nelle cellule i recettori corrispondenti, EP2. Questi, a loro volta, causano la diminuzione o l’arresto della glicolisi e della fosforilazione ossidativa portando, in questo modo, a un’ulteriore infiammazione dei macrofagi e dei tessuti.
Per studiare questo meccanismo il team di scienziati ha disattivato il recettore che si lega a quel lipide. Nei topi, e in vitro nelle cellule umane, gli effetti dell’inibizione di EP2 sono stati valutati in gruppi diversi secondo due metodi:
– inattivando il gene GYS1, il cui aumento di espressione porta a disfunzione nei processi di trasformazione del glucosio in glicogeno;
– inibendo farmacologicamente EP2.
In entrambi i casi è stata osservata un’inversione nell’arresto metabolico dei macrofagi e, dove possibile, ciò ha permesso di ottenere livelli di attività metabolica giovanile, riduzione dell’infiammazione e ripristino cognitivo. È notevole che anche nei gruppi in cui gli scienziati sono intervenuti soltanto sui macrofagi della periferia del corpo tutti i macrofagi dell’organismo, compresi quelli del cervello, hanno raggiunto buoni risultati. Ciò conferma che la risposta immunitaria periferica ha effetti anche sulla microglia e dimostra che, in qualche modo ancora da analizzare a fondo, i macrofagi compromessi restano reattivi alla stimolazione immunitaria anche in situazioni di malattia e invecchiamento.
Il glicogeno: una riserva di energia?
Un altro aspetto importante che lo studio inviata ad approfondire risiede nel glicogeno. I macrofagi stoccano questo polimero come riserva di energia e, mentre l’organismo invecchia, aumentano il suo stoccaggio. Dato che un tipo di cellula correlata con i macrofagi, la cellula dendritica, si comporta in modo analogo per montare una risposta immunitaria più forte in caso di infiammazione acuta, è plausibile – ma non ancora accertato – che i macrofagi immagazzinano glicogeno per il medesimo motivo. Tuttavia, con l’avanzare dell’età essi divengono incapaci di utilizzare questa riserva energetica, anche laddove trovano interrotte le due principali vie metaboliche.
Nelle prime fasi dell’invecchiamento quell’eccesso di glicogeno, ancora utilizzabile dalla microglia, può portare a una riposta immunitaria esagerata che potrebbe contribuire alla neurodegenerazione. Ed è questo rischio che potrebbe essere alla base della perdita della capacità di utilizzare il glicogeno: per evitare quella risposta immunitaria iperattiva frequente con l’infiammazione cronica relativa alla senescenza o alla malattia neurodegenerativa.
Salute del cervello: le sfide che ci attendono
Come suggerisce Jonas Neher su Nature, questo studio ci rammenta che “evoluzione” non significa necessariamente “progresso”, mostrandoci come l’aumento dello stoccaggio di glicogeno, nelle prime fasi dell’invecchiamento, rappresenta una forma di protezione immunitaria che però, nella fase successiva, viene interrotta per i danni che potrebbe infliggere.
In una prospettiva evolutiva da un lato questo comportamento evita che la reazione immunitaria aggravi il problema danneggiando i tessuti del sistema nervoso, dall’altro, però, predispone il cervello a disfunzione e neurodegenerazione.
Comunque, questa analisi lancia un paio di sfide per futuri studi, cioè rilevare fino a che punto e in che modo i macrofagi di un organismo in età avanzata restano reattivi agli stimoli anche in specie, come quella umana, più longeve di quelle murine. Occorre inoltre cercare di comprendere meglio con quale metodo, ossia attraverso quali specifici segnali immunitari, viene indotto lo spegnimento o il ripristino microgliale.
Per i topi la salute del cervello può essere difesa con la conservazione delle funzioni cellulari dei macrofagi. Sarà interessante verificare se e in che modo ciò possa valere anche per la specie umana, tenendo sempre a mente che la conservazione delle funzioni cognitive non dipende esclusivamente da queste funzioni, sebbene esse dimostrino una certa rilevanza.