In questi giorni si sta riaccendendo il dibattito sull’origine di SARS-CoV-2: prende vigore l’ipotesi che il virus abbia avuto origine nei laboratori dell’Istituto di Virologia di Wuhan, dove tre ricercatori avrebbero sviluppato i sintomi della malattia già a novembre 2019, un mese (almeno!) prima che la Cina comunicasse l’avvenuta identificazione del nuovo coronavirus.
In verità una serie di studi condotti in Europa e altrove avevano consentito di rilevare la presenza del virus nella popolazione umana già diversi mesi prima di quella data.
L’origine “laboratoristica” di SARS-CoV-2 viene teorizzata sulla base della cosiddetta “gain of function”, l’acquisizione di “nuove funzioni” conseguente alle manipolazioni genetiche effettuate in laboratorio. Fra queste rientrerebbe, in primis, la capacità del virus di infettare le nostre cellule e di propagarsi nella nostra specie.
Un virus naturale o artificiale?
Su questo fondamentale crocevia l’ipotesi dell’origine artificiale si interseca, giustappunto, con quella dell’origine naturale di SARS-CoV-2, che risulterebbe avvalorata da una serie di dati, sia storici che attuali.
I primi ci rimandano agli agenti responsabili delle cosiddette malattie infettive emergenti, che nel 70% dei casi (almeno!) avrebbero una comprovata o sospetta origine animale e, più nello specifico, ai due betacoronavirus della SARS e della MERS, originatisi da un serbatoio animale “primario” (pipistrelli) e da un ospite “intermedio” (zibetto e dromedario, rispettivamente).
Per i secondi, invece, l’elevata similitudine genetica (oltre il 96%) che SARS-CoV-2 condivide con un altro coronavirus isolato in Cina dai pipistrelli (RA-TG13) renderebbe oltremodo plausibile la sua origine naturale. Non senza aver sottolineato, in proposito, anche il lungo viaggio che in poco più di un anno avrebbe portato SARS-CoV-2 a infettare, in condizioni assolutamente naturali, un elevato numero di specie animali domestiche (gatto, cane) e selvatiche (visone, tigre, leone, puma, leopardo delle nevi), nonché a evolvere in una serie di temibili varianti.
Spillover, spillback e varianti
Con la comparsa delle succitate varianti – definite “variants of concern” (VOC) dalla letteratura biomedica –, alcune delle quali consentirebbero al virus di infettare in maniera ancor più efficace le cellule umane e, cosa non meno rilevante, anche di eludere – quanto meno in parte – la risposta anticorpale elaborata a seguito sia dell’infezione che della vaccinazione anti-SARS-CoV-2, farebbe il paio la documentata capacità di alcune VOC di infettare anche gli animali domestici. Questo è il caso, ad esempio, della variante “inglese” (alias B.1.1.7, recentemente ribattezzata “variante alfa” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità), in grado di infettare la specie felina.
A ciò si aggiunge quanto avvenuto, fra la tarda primavera e l’estate del 2020, in numerosi allevamenti di visoni dei Paesi Bassi e della Danimarca; qui, a una pregressa acquisizione del virus dall’uomo (spillover), avrebbe fatto seguito la selezione, nell’organismo dei visoni infetti, di una particolare variante denominata “cluster 5”, caratterizzata a sua volta dalla mutazione “Y453F” a livello della “proteina spike” di SARS-CoV-2, che il visone avrebbe quindi “restituito” (spillback) all’uomo.
Ovviamente non abbiamo la soluzione dell’enigma in tasca, ma quelli fin qui elencati sono tanti importanti indizi a supporto dell’origine naturale di SARS-CoV-2 e, come si suol dire, tanti indizi costituiscono (quasi) una prova.
Per maggiori informazioni, visita il portale ufficiale del Ministero della Salute.