Mentre la poderosa macchina organizzativa del Festival della Canzone Italiana ha avviato anche quest’anno – non senza polemiche – i suoi potenti motori, dando così inizio alla sua settantunesima edizione, nel pieno rispetto delle regole adottate per il contenimento della diffusione di SARS-CoV-2, la mente torna a un anno fa. In data 21 febbraio 2020 venne accertato il primo caso nel nostro Paese della drammatica malattia che oggi è nota a tutti come Covid-19.
E, se col famoso “senno di poi” è stato chiaramente dimostrato che non del primo, ma forse del millesimo caso d’infezione da SARS-CoV-2 si trattava, a riprova del fatto che il virus circolava in Italia già da diverse settimane, in quello stesso mese di febbraio andava in scena, un paio di settimane prima dell’identificazione del paziente 1, la scorsa edizione del Festival di Sanremo.
Un anno di Covid in Italia
Quanta “acqua sotto i ponti” abbiamo visto scorrere in questi 12 mesi, con scuole e università chiuse e in DAD, una sorte che è toccata anche a musei, mostre, cinema e teatri di un intero Paese, nonché a stadi, palestre, piscine, impianti sciistici, bar, ristoranti, alberghi, centri commerciali e quant’altro.
Tutto ciò al precipuo fine di evitare quanto più possibile gli assembramenti umani di cui questo virus ha dimostrato di saper approfittare in maniera straordinaria. Evitare assembramenti, unitamente al pieno rispetto delle misure anti CoViD-19 – imposte dal buon senso ancor prima che ope legis –, diviene ancora più opportuno e cogente, infatti, alla luce della sempre più intensa e preoccupante circolazione (anche) in Italia delle nuove varianti di SARS-CoV-2 (definite variants of concern dalla letteratura biomedica internazionale).
A tal proposito, come risulta ben noto, i luoghi chiusi – con particolare riferimento a quelli in cui non venga assicurato un idoneo ricambio dell’aria – sono quelli in cui si realizzerebbero le condizioni ottimali per la trasmissione virale e per una vera e propria esplosione di contagi, fenomeni altrimenti conosciuti come eventi di super-diffusione. E sarebbero per l’appunto certe attività svolte in siffatti ambienti e contesti, quali ad esempio la partecipazione a cori musicali, il parlare (o, peggio ancora, il cantare tutti insieme) a distanza ravvicinata e ad alta voce, a rappresentare veicoli di trasmissione e diffusione assai efficaci nei confronti del virus, complice la contestuale presenza di individui super-diffusori (questi ultimi responsabili, si pensa, dell’80-85% dei casi di infezione nella popolazione generale).
Sanremo 2020: un evento super-diffusore?
Sulla scorta di quanto sin qui esposto, sarebbe stato e sarebbe tuttora lecito, a dir poco, aspettarsi che, ancor prima che sulle performance canore delle sue (più o meno) “dorate ugole”, i riflettori si accendessero sulla passata edizione del Festival, targata febbraio 2020: avrebbe infatti tutte le carte in regola in qualità di “teatro” (o meglio “miglior teatro” visto e considerato che Ariston, il celeberrimo palcoscenico della kermesse sanremese, vuol dire appunto migliore) per considerarsi un evento di super-diffusione.
Per quanto questa ipotesi non sia stata finora documentata in maniera inoppugnabile (fatto salvo il vecchio adagio secondo cui “chi cerca trova”), ne andrebbe rimarcata a chiare lettere l’assoluta plausibilità biologica, paradossalmente amplificata dalle molte voci istituzionali e professionali “rassicuranti” attraverso cui si svolgeva la narrazione della malattia Covid-19, a fronte di una quanto mai intensa e sostenuta circolazione di un nuovo, temibile coronavirus che molti addetti ai lavori ritenevano responsabile, illo tempore, di una «sindrome simil-influenzale o poco più».
Qualcuno ha forse sentito parlare di Sanremo e del suo celeberrimo Festival in questi ultimi 12 mesi, quanto mai lunghi, dolorosi e sofferti? Io no, in tutta onestà, ma forse mi sono perso qualcosa, absit iniuria verbis!
Immagine di copertina: © Luca Galli – Flickr