In occasione dell’Assemblea Internazionale del CICAP nel 2004 ad Abano Terme, Piero Angela intervistò Galileo Galilei, impersonato dall’attore Paolo Caporetto.
Il testo degli interventi, dovuto a Mariapiera Marenzana, è qui riportato con lievi aggiornamenti. Le risposte date dallo scienziato pisano, in particolare le idee di rilievo e le espressioni forti o colorite, sono in buona parte tratte dai suoi scritti. Esse danno un’idea dell’elegante prosa di Galileo, che Italo Calvino collocava, con Dante e Machiavelli, tra i massimi scrittori italiani.
ANGELA: Signor Galilei, la riproduzione di alcuni suoi esperimenti ci ha fatto toccar con mano come siamo ancor oggi immersi in antichi pregiudizi, anteriori alla sua invenzione del metodo scientifico.
GALILEI: Purtroppo, per quel che conosco del mondo d’oggi, non posso contraddirla, signore.
A: In quattro secoli abbiamo indubbiamente fatto innumerevoli progressi scientifici e tecnologici…
G: … mirabili assai, invero, e remoti da ogni mia immaginazione…
A: Tuttavia lei saprà quante credenze infondate ancora oggi sopravvivono. Pensi solo agli oroscopi sui giornali e alla televisione. Avrà anche sentito della fede che tanti ancora ripongono in rimedi inefficaci, quali l’omeopatia…
G: … si diluisce, si diluisce, si diluisce ancora e ancora, fin che del farmaco non resta più nulla, e poi si scuote, si scuote di nuovo… ne ho sentito parlare.
A: E inoltre ogni sorta di fantasie: extraterrestri che ci fanno visita, superstizioni, misteri, eventi paranormali, maghi, guaritori, ciarlatani. E credenze religiose.
G: Come al tempo mio, purtroppo, quando si combatteva la peste con l’aceto e con le fumigazioni, e si dava la caccia a untori e streghe. Ben colgo la sua delusione, signore, quella di chi s’adopra perché gli uomini sempre ben aperti tengano gli occhi della fronte e della mente.
A: La ragione – sono parole sue che non posso scordare – è la sola adeguata iscorta a sortir d’oscurità l’uomo, e a quietar la sua mente.
G: Eppure è così spesso negletta! Per pigrizia, forse, perché comodo è seguire le inveterate abitudini di pensiero, oppure…
A: Per sottrarsi a responsabilità individuali, affidandosi all’autorità di altri?
G: … l’ipse dixit, certo, ai miei tempi Aristotele e la Chiesa. Ma l’ordine del mondo è uno solo, e nelle cose naturali l’autorità d’uomini non val nulla. La natura, signor mio, si burla delle costituzioni e dei decreti dei principi, degli imperatori e dei monarchi, a richiesta de’ quali non muterebbe un iota delle leggi sue!
A: Essendo la natura inesorabile e immutabile…
G:… e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini. Mi lusinga che le mie parole siano ancora ben ricordate.
A: Ricordo anche, a proposito del principio d’autorità, di aver letto, in una pagina del suo Dialogo, un gustoso episodio che mi piacerebbe fosse lei a raccontare.
G: Penso che lei si riferisca alla storia esemplare di quel filosofo aristotelico il quale, constatato con i suoi occhi in sala anatomica che il fascio dei nervi si diparte dal cervello e non dal cuore, dopo avere meditato alquanto, disse che avrebbe dovuto per forza ammettere la cosa per vera, se il testo di Aristotele non avesse sostenuto il contrario.
A: Ne ridiamo, oggi, ma con amarezza, se appena ci volgiamo intorno. Basta pensare alle nostre scuole: antiche leggende religiose in luogo di ipotesi scientifiche!
G: Povero Darwin, dopo tante sensate esperienze e necessarie dimostrazioni raccolte a sostegno del suo affascinante discorso!
A: Autonomia di giudizio troppo spesso significa esprimersi senza competenza alcuna su qualsiasi soggetto, oppure avanzare ipotesi infondate su argomenti indimostrabili.
G: Andar cioè a guisa della gallina cieca, dando or qua or là del becco in terra, fin che s’incontri in qualche grano di miglio: il guadagno non sarà maggiore di quello di colui che s’andava informando per qual porta della città s’usciva per andar per la via più breve in India. Era il modo di procedere di alcuni scienziati miei contemporanei, cui non potei risparmiare il lancio di “meluzze e torsi”…
A: Altro che “meluzze e torsi”, dica pure strali feroci! La prego, ne tenga in serbo alcuni per certi scienziati d’oggi i quali, atteggiandosi a suoi eredi, mescolano sacro e profano e tradiscono l’etica stessa della scienza. Quanto diverso il loro modo di procedere dal suo!
G: Io stimo di più trovare un vero, benché di cosa leggiera, che ’l disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nessuna. Una colpa da cui posso ben dirmi esente è quella di aver dato risposte a questioni non sondabili con la ragione e non verificabili con la sensata esperienza.
A: Per esempio?
G: Per esempio il dire se le stelle sieno abitate o se esista l’eternità, pure fantasticherie. Mai volli indagare quel che Dio poteva essere o fare, ma solo quello che ha fatto, il libro della natura, scritto in caratteri matematici, che perpetuamente ci sta aperto dinnanzi agli occhi.
A: Un libro che, come lei ci ha insegnato, a saperlo leggere può fornire informazioni preziose persino su ciò che sfugge alla nostra diretta esperienza.
G: Gli effetti della natura, quantunque minimi e di nessun conto, non devono mai dal filosofo disprezzarsi, ché le operazioni di natura son tutte in pari grado degne di meraviglia, perché anche da cose comuni si posson trarre notizie molto curiose e nuove. E perché analoghe sono le leggi che governano il volo di una farfalla e quello di una stella in cielo. La cura dell’orto, potare o legar le viti, era per me passatempo insieme e materia di filosofare.
A: Lei ha suscitato sempre sentimenti forti, fra gli amici così come fra gli avversari. Solo per la scomoda novità delle sue idee?
G: Non posso certo negare che facilmente mi movevo all’ira, sebbene facilmente mi placassi. Mi infuocavo nelle opinioni perché avevo estrema passione dentro, ma poca prudenza a saperla vincere. Provavo gusto a volte ad attaccar briga e a combattere con chi aveva mezzi per vendicarsi. Ma ero insofferente della stupidità.
A: Però le piaceva anche scherzare…
G: Certo, e ridere pur delle cose più serie e stimate, che talvolta non hanno meno del ridicolo delle altre.
A: Per esempio, il sussiego accademico?
G: Ah, penso lei alluda a quel poemetto – Contro il portar la toga – che scrissi quand’ero giovane professore a Pisa e che mi inimicò gli austeri colleghi.
A: Del resto, vi sosteneva un’idea diciamo pure insolita: che il meglio di tutto sarebbe andare ignudi.
G: Certo, perché è la veste che fa i sudditi diversi dai padroni, peggio che mai la toga, che inoltre t’impaccia e t’intrica, e ben s’addice a chi fa le cose adagio o non ha a grado la fatica, come certi frati o certi preti grassi….
A: O a quelli che stimano l’uomo a seconda che indossi un abito di lana rozza o di velluto.
G: Per me gli uomini son fatti come i fiaschi: ce n’è che non han tanto indosso, ma poi son pieni d’eccellente vino; altri han veste elegante, ma contengono vento o acqua profumata, e son adatti solo a pisciarvi dentro.
A: Dunque, bando a ogni forma di seriosità – che spesso non è che ipocrisia – ma non, così mi è parso di capire, ai piaceri della vita.
G: Stimavo l’allegrezza essere il miglior ingrediente della salute e del benessere. Sempre trassi gioia e conforto dalla compagnia degli amici, coi quali m’era grato praticar la musica, toccar i tasti e suonare il liuto. Ah, sminuzzolar cantucci con loro, nella quiete della mia casa, gustando un bicchier di ciliegiolo o di frizzante chiarello!
A: Tra i suoi molti amici, che so esserle stati di grande conforto nei momenti più difficili della vita, ci furon non solo scienziati o allievi, ma anche artisti e illustri pittori.
G: Sì, il Bronzino, il Cigoli, la giovane Artemisia Gentileschi. Amai anche le belle lettere e in segreto gustavo gli autori proibiti – il Boccaccio e il Machiavelli, l’Aretino – o pericolosi, come Giordano Bruno.
A: Sapeva a memoria gran parte dell’Orlando Furioso, o sbaglio?
G: Il divino Ariosto… non tollero che lo si paragoni a quell’insipido Tasso e ai suoi eroi da burla. Pensi soltanto a quel fagiolaccio scimunito di Tancredi, vero innamorato da pere cotte. L’istessa differenza, tra il Tasso e l’Ariosto, che al mio palato recava il mangiar cetrioli dopo aver gustato saporiti meloni.
A: Lei ha dedicato alla scrittura la stessa vigile attenzione che alla scienza.
G: Certamente, e per più ragioni. Fare scienza e scriverne erano per me una sola cosa. Un linguaggio generico o oscuro è spia di povertà di concetti. Del resto, parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi.
A: La chiarezza è una conquista difficile, ma necessaria per trasmettere le idee, e anche per non essere fraintesi…
G: …laddove la trascuratezza può capovolgere le intenzioni dell’autore, per esempio al pio Tasso sfuggono doppi sensi osceni assai remoti dal suo volere. Ma è del resto un errore in cui incorse anche Michelangelo, quando accomodò, nel suo Giudizio Universale, Santa Caterina ignuda con San Biagio dietro, disposti in attitudine oscenissima.
A: Basta così, signor Galilei, o il suo spirito libero, di toscano di razza, le potrà procurare rinnovati guai!
G: Ho il privilegio di non dovermi più curar dei guai! E tuttavia, assai m’amareggia constatar ancora che i tempi nuovi lo sono meno assai di quanto era lecito sperare. Ai tempi miei, la mentalità comune era ridotta così in basso che erano largamente premiati cacciatori e cuochi, che con nuove invenzioni e pasticci s’affaticavano di dar gusto alle bizzarrie e palati degli uomini, mentre eran posti altissimi intoppi agli intelletti specolativi. Come allora, oggi son cantanti e calciatori, e i cervelli son costretti a emigrare.
A: Ancora ci umilia e ci addolora la sorte che le è toccata. Come si è resa possibile tanta ignominia?
G: Sempre volli, sopra ogni cosa, dar resonanza grande alle mirabili mie scoperte celesti. Volevo fosse a tutti chiaro che la natura, come ci ha dato gli occhi per vedere le opere sue, così ci ha dato il cervello per intenderle e capirle.
A: Per questo lei scelse di scrivere in italiano piuttosto che in latino, lingua della scienza e della cultura.
G: E fu per questo che lasciai il mondo ristretto della Repubblica di Venezia per tornare a Firenze e affrontar gli infiniti accidenti di un mondo – la Corte e la Curia – popolato da uomini ambiziosi e infidi.
A: Eppure i suoi amici veneti l’avevano messa in guardia. Le sue idee copernicane e le sue scoperte erano una minaccia per la cultura accademica e per l’autorità della Chiesa.
G: La Chiesa era la depositaria del sapere e giudice vigile di tutto quel che si scriveva allora in Italia. Fuori di lei non v’era che il silenzio, scelto o imposto che fusse.
A: Quindi lei non poteva non far la Chiesa partecipe delle nuove verità, benché il rogo di Giordano Bruno lasciasse poche illusioni…
G: Io m’illudevo che la forza del fondato ragionamento sarebbe riuscita a prevalere sulle antiche e infondate abitudini di pensiero.
A: Fu questo forse il suo errore più grande.
G: Ma che tuttavia ancora tornerei a fare. Volevo anche che la Chiesa evitasse di mettere a rischio la sua autorità sostenendo princìpi che ben presto sarebbero stati apertissimamente dimostrati falsi e avrebbero dovuto essere ritrattati.
A: Insegnamento a tutt’oggi non recepito. La Chiesa ripete i suoi errori, benché da qualche anno abbia disposto la sua riabilitazione…
G: Riabilitazione! Invero, signore, m’offende il sol pensiero che fossi io, che molto ho patito, e le cui idee con tanta chiarezza sono state dimostrate corrette, a dover essere riabilitato…
A: Cosa risponderebbe a chi ancor oggi, come Bertolt Brecht, le rimprovera l’abiura per aver con essa sottomesso la scienza alla forza dei poteri costituiti? E di aver rinunciato a stabilire un principio di libertà per il pensiero scientifico?
G: Accettare il rogo, come Bruno fece, significava accettar la logica antica, quella dei nemici miei. Col rogo, Bruno volle testimoniare la bontà delle sue fantasiose intuizioni… Io invece mai ebbi dubbio alcuno che la mia visione del mondo si sarebbe affermata attraverso le parole e non le fiamme. Il mio obbligo era condurre a termine la fondazione della scienza. L’indomani stesso dell’abiura, tra rischi e difficoltà d’ogni sorta, mi posi a scrivere l’ultima opera mia, i Discorsi, a rinnovato sostegno delle idee in cui credevo.
A: Sembra essere inevitabile, a questo punto, chiederle se ha perdonato i suoi persecutori. Mi risponda, ma solo se lo ritiene opportuno.
G: I torti e le ingiustizie che l’invidia, la diabolica malignità e iniqua volontà mi avevano macchinato contro non mi hanno travagliato, anzi la grandezza delle ingiustizie mi è stata piuttosto di sollievo, è stata un’ispecie di vendetta, perché l’infamia è ricaduta sopra i miei persecutori e i loro epigoni.
Immagine di copertina: Piero Angela e Galileo Galilei, fonte Wikimedia
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