«Ma forse il fuoco di guerra che ha maggiormente atterrito l’umanità – dico l’umanità tutta, per la prima volta a giorno su tutto il globo di quanto stesse avvenendo in una sua parte – è stata l’esplosione della bomba atomica. Uno dei piloti che ha sganciato la bomba su Nagasaki ha scritto: “All’improvviso la luce di mille soli illuminò la cabina. Fui costretto a chiudere gli occhi per due secondi, malgrado gli occhiali scuri”. Il Bhagavad-Gita recitava: “Se la luce di mille Soli potesse splendere di colpo nel cielo sarebbe come lo splendore del Grande […]. Io sono diventato la Morte, la distruttrice dei Mondi” e questi versi erano venuti in mente a Oppenheimer dopo l’esplosione della prima bomba atomica».
Autore di questo brano è Umberto Eco [1] che introduce nel suo discorso, en passant, la figura del fisico americano, recentemente vivificata dalla bella pellicola biografica di Christopher Nolan, nelle sale cinematografiche in queste settimane [2].
La detonazione degli ordigni nucleari non si era ancora spenta che nei Paesi più reattivi e sensibili del mondo molti intellettuali intuirono che l’umanità tutta era entrata a pieno titolo nell’era atomica. Tra questi vi era Piero Calamandrei.
La posizione di Calamandrei sul Patto Atlantico
Nell’articolo Cinquantacinque milioni, pubblicato sulla rivista Il Ponte nel settembre 1945, Calamandrei indica nella bomba atomica il «simbolo riepilogativo, la morale di un apologo» e condanna «la gara di follia per carpire al sole il segreto degli atomi», preannunciando che «basterà qualche ritocco all’invenzione per avere a portata di mano l’arma onnipotente, pronta ad annullare tutto il genere umano, vincitori e vinti, in uno scoppio solo».
Di fronte a ciò, Calamandrei si augura che un sentimento di solidarietà unisca tutti gli individui e la bomba atomica diventi argomento inconfutabile dell’interdipendenza tra i popoli: «Dall’interdipendenza nella morte deve nascere la coscienza mondiale della interdipendenza di tutti gli uomini nella vita». Il dilemma che egli si pone è: «O la pace nella giustizia o l’esplosione cosmica nell’infinito di questa folle bolla di sapone iridata di sangue».
Ricordiamo che Calamandrei è tra coloro che hanno votato “no” al Patto Atlantico nel dibattito alla Camera dei deputati nel marzo 1949, con argomentazioni distinte dai comunisti e dai socialisti. Nel suo discorso del 16 marzo 1949, dichiara di essere «contrario in questo momento a qualsiasi scelta» tra i due blocchi contrapposti e di reputare una scelta preventiva «pericolosa e non necessaria» per l’Italia.
Le ragioni politiche del suo voto sono essenzialmente tre:
– la prima è di ordine europeo, dato che il socialismo federalista a cui aderisce mira a una federazione europea politicamente e militarmente unita e indipendente, «né alleata né ostile, ma mediatrice tra i due blocchi contrapposti»;
– la seconda, riguardante la sicurezza interna, è il rischio che la contrapposizione tra i due blocchi dia «maggiore asprezza alla lotta interna dei corrispondenti partiti», con rischi di guerra civile;
– la terza ragione è che ci sono gravissimi rischi militari per l’Italia, che di tutti i firmatari è il Paese più esposto e, in caso di conflitto, avrebbe la certezza dell’immediata invasione.
Ma più di questi argomenti politici, Calamandrei insiste che sono in gioco «motivi morali e religiosi: questa è una scelta che impegna la nostra anima. Il problema di coscienza che ciascuno di noi si pone è lo stesso: mentre su di noi si addensa l’ombra di un’altra catastrofe, che cosa posso fare io, quale contributo posso portare io, piccolo uomo, atomo effimero, per allontanare dal mio Paese questo flagello?».
Calamandrei è ben consapevole del proprio isolamento, ma, ciò nonostante, tiene ferma una posizione di neutralità come testimonianza morale, perché reputa che l’umanità sia davanti a un bivio che rischia di portarla alla catastrofe.
L’angoscia per questa situazione è espressa anche in forma di favola apocalittica, recuperando un mezzo espressivo che gli era stato congeniale in gioventù, nelle collaborazioni con Il giornalino della Domenica di Vamba. Il manoscritto ritrovato tra le sue carte è stato edito nel nuovo millennio con il titolo di Futuro postumo [3] ed è un interrogativo sulla possibile estinzione della specie umana a seguito della catastrofe nucleare.
Il caso Oppenheimer: la replica di Calamandrei a Montanelli
Un’autodifesa più articolata della propria posizione si trova nell’articolo del maggio 1954 dedicato al caso Oppenheimer. Lo scienziato americano, dopo essersi assunto la responsabilità scientifica dell’atomica e da un punto di vista morale delle conseguenze di tali risultati, si era opposto allo sviluppo della bomba all’idrogeno e per questo fu accusato di simpatie comuniste, nella scia del maccartismo che travolse gli Stati Uniti in quegli anni.
Anche in Italia si accese una discussione in merito e Calamandrei si trovò a replicare a un articolo del Corriere della Sera del 25 aprile 1954, che attaccava il «pietismo atomico» di tutti coloro «che si ostinano, sotto pretesti di umanitarismo, a lanciare scongiuri e anatemi contro la bomba all’idrogeno».
Nell’articolo Ragioniamo (se ci riesce) di questa bomba, Calamandrei difende i dubbi di Oppenheimer, definito dal Corriere «il La Pira della fisica nucleare», i dubbi di La Pira e i suoi stessi dubbi.
Calamandrei non crede che l’equilibrio del terrore possa salvare il mondo e teme l’esito catastrofico di una guerra preventiva; già misura inoltre i danni che ne sono venuti all’indipendenza politica e militare dell’Europa e all’unificazione europea.
«Se il mondo si salverà – conclude – lo salveranno non le folli intransigenze di chi va a caccia, di qua e di là, di agnostici e di deviazionisti, ma le sagge e umane perplessità degli Oppenheimer. Chi lavora a esasperare i due terrori, ad assottigliare sempre più lo schermo di ragione che ancora si interpone tra essi, lavora alla distruzione del mondo, e forse del suo mondo: perché, se proprio la partita dovesse chiudersi con la distruzione di un emisfero, non è poi sicuro che lo zelante articolista del Corriere della Sera abbia saputo scegliere l’emisfero che sopravviverà».
Calamandrei non nomina mai lo zelante autore dell’articolo, su cui ironizza: ma è bene sapere che si trattava di Indro Montanelli. Sarebbe il caso di rileggerselo per capire il clima di guerra fredda che veniva alimentato: Montanelli attribuisce i tormenti di Oppenheimer anche al fatto che sia un «israelita» [sic], «particolarmente colpito dai soprusi patiti dai suoi correligionari per colpa di Hitler» e dunque impedito a «misurare quelli perpetrati dal comunismo contro tutto il genere umano». Non esclude che finisca per suicidarsi [«non mi stupirei se domani finisse per suicidarsi»] e pur esprimendogli umana solidarietà escludendo che sia un traditore [«non è mica un Rosemberg, lui»], si dichiara solidale con i suoi epuratori e avrebbe sottoscritto la decisione.
Ma il suo vero bersaglio sono gli «oppenheimerini occidentali, specie francesi e italiani», perché quella che si sta combattendo è una “guerra di religione” e non c’è spazio per le terze forze e i neutralismi.
Il tipo umano che Montanelli auspica è «un Loyola della Libertà, deciso a bruciare non solo i corpi degli eretici, ma anche degli agnostici come Oppenheimer, pur di salvare l’anima dell’Occidente».
Il dibattito sul caso Oppenheimer in Italia
Dopo l’articolo di Calamandrei, la rivista Il Ponte lanciò un vero e proprio questionario sul caso Oppenheimer, coinvolgendo scienziati, giuristi e filosofi: i risultati furono pubblicati nel numero 6 del giugno 1954, intitolato Responsabilità dello scienziato. Vi parteciparono Massimo Aloisi, Edoardo Amaldi, Norberto Bobbio, Guido Calogero, Giuseppe Capograssi, Gustavo Colonnetti, Eugenio Garin, Arturo Carlo Jemolo e Salvatore Satta, testimonianze preziose della sensibilità degli scienziati e degli intellettuali italiani ai dilemmi sollevati.
Di seguito il testo dei quesiti, formulati probabilmente dallo stesso Calamandrei.
Il caso del fisico Oppenheimer, che dopo aver collaborato alla costruzione della bomba atomica, è stato sottoposto a inchiesta sotto accusa di aver esitato, per considerazioni morali e umanitarie, di fronte alle spaventevoli prospettive delle bombe termonucleari, ha posto in luce in maniera tipica dinanzi agli occhi di tutto il mondo il tragico problema di coscienza in cui può trovarsi lo scienziato, portato dalla sua ricerca scientifica, che mira unicamente all’indagine della verità, a scoperte spaventose che, tradotte in pratica, possono servire al massacro e alla distruzione del mondo. Il punto essenziale del problema è stato messo ancor più in evidenza dalla decisione che la Commissione d’inchiesta ha pronunciato sul caso in questi giorni: da una parte riconoscendo la loyalty politica dell’inquisito, ma dall’altro interdicendogli di continuare a lavorare nelle ricerche atomiche, perché egli è pericoloso per lo «scarso entusiasmo» da lui dimostrato per la bomba H.
La Commissione insomma, pur avendo riconosciuto l’infondatezza delle accuse rivoltegli di aver ostacolato il programma della bomba H, ha trovato tuttavia che egli rientra nella zona degli uomini politicamente pericolosi (cioè nella zona del «security risk») per ragioni negative, cioè per non aver dato al programma «quell’appoggio entusiastico» che sarebbe servito ad accelerare l’attuazione dell’arma termonucleare.
Di fronte a questo caso che così profondamente ha turbato la coscienza degli uomini di pensiero e di scienza, Il Ponte ha rivolto a numerosi studiosi italiani, il seguente questionario:
1) Ritenete che nella indagine scientifica l’uomo di scienza abbia soltanto il dovere di spingere più avanti che può la ricerca della verità, senza curarsi di valutare le conseguenze pratiche che potrà avere l’applicazione delle nuove scoperte; oppure ritenete che lo scienziato debba, senza con questo tradire il suo ufficio di ricercatore delle verità, arrestarsi di fronte a ricerche che potrebbero portarlo a scoperte moralmente e socialmente pericolose? A quali di queste esigenze lo scienziato deve dare la prevalenza?
2) Se ritenete che nel principio della libertà della scienza sia compresa necessariamente anche la libertà dello scienziato di indirizzare come meglio crede le sue ricerche e quindi di continuarle o di arrestarle così come gli detta la sua coscienza, come credete che si possa risolvere il conflitto che può sorgere tra la coscienza dello scienziato e l’autorità dello Stato di cui è cittadino, quando lo Stato chiede allo scienziato contributi scientifici che egli, se volesse, sarebbe in grado di dare, e che sarebbero tali da assicurare allo Stato la vittoria in una guerra imminente o addirittura il dominio del mondo? Tra l’ordine dell’autorità politica dello Stato di cui lo scienziato è cittadino, e la coscienza dello scienziato che si rifiuta di far servire la sua scoperta alla distruzione di altri popoli, quale dovrà prevalere? Si può ammettere che ragioni di guerra possano far considerare la collaborazione scientifica come un dovere militare, e il rifiuto di collaborazione come un tradimento? E questa risposta dovrà esser la stessa sotto tutti i regimi?
3) La libertà della ricerca scientifica deve essere giuridicamente illimitata, ovvero si deve riconoscere allo Stato il diritto di intervenire a controllarla, dettando agli scienziati i compiti e gli orientamenti che meglio corrispondano ai fini sociali e politici dello Stato, e vietando la continuazione delle ricerche in certi campi ove lo Stato possa prevedere che le possibili scoperte potrebbero essere socialmente e politicante pericolose?
Domande, come vediamo, ancora estremamente attuali oggi.
La visione del mondo di Calamandrei
L’attività culturale e politica di Calamandrei come direttore de Il Ponte si intreccia ad altri interventi, come il suo contributo all’Enciclopedia Geografica della De Agostini per i ragazzi, alla voce “confini” che vorrebbe fossero tracciati col lapis:
Il mondo è rimpicciolito: lo Stato ha oggi, sotto il profilo della importanza geografica e politica, minore importanza di quella che aveva cinquecento anni fa un Comune. I confini politici, quali sono ancor oggi segnati sulle carte geografiche, non corrispondono più alla realtà sociale di questa umanità collegata da un colloquio aereo che nessuna frontiera può fermare, e che con la rapidità della luce intesse tra le nazioni l’invisibile rete di un comune destino. Ormai i popoli, attraverso questa conversazione intercontinentale alla quale ognuno di noi può partecipare aprendo la radio nel suo salotto, sono molto più unificati e omogenei di quello che potrebbero far credere i confini degli Stati, vestigi di una finzione politica che sta per esser cancellata dalla realtà sociale che la sorpassa. Per questo argutamente fu detto che nelle carte geografiche d’oggi i confini devono sempre più essere scritti col lapis e non con l’inchiostro: sono linee che sempre più si sbiadiscono nella coscienza dei popoli, e sulle quali passa e ripassa, per renderli sempre più tenui, la forza livellatrice delle idee comuni.
È con questo spirito di ricerca del dialogo e della conoscenza reciproca che Calamandrei si fa ambasciatore nei primi anni ’50 di un messaggio di democrazia e di coesistenza tra i popoli, intraprendendo due significativi viaggi, in Messico e nella Cina popolare, portandosi “la Costituzione nella valigia”.
Oppenheimer di nuovo in Italia
Dieci anni esatti dopo l’articolo che Calamandrei dedicò a Oppenheimer, quest’ultimo visitò l’Italia. Il 13 settembre 1964 «una figura sottile e curva, avvolta in un pastrano scuro, il bavero alzato, percorre il marciapiede e s’infila nel portone dell’edificio di piazza Oberdan, quello dove oggi ha sede il Consiglio regionale e che allora ospitava la sede provvisoria del Centro internazionale di fisica teorica [a Trieste, n.d.r.]. Quell’uomo – ci racconta il giornalista scientifico Fabio Pagan – era Julius Robert Oppenheimer» [4].
Ma che ci faceva Oppenheimer a Trieste? Il titolo dell’articolo svela, almeno in parte, il motivo della visita: una riunione, voluta dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, nella quale si doveva dare l’avvio alle attività del costituendo Centro internazionale di fisica teorica. Della riunione solo poche immagini ma significative, che ritraggono Oppenheimer assieme ad Abdus Salam (futuro direttore del centro che riceverà il Nobel per la Fisica nel 1979), Manuel Sandoval Vallarta (nominato chairman su proposta dello stesso Oppenheimer) e l’austriaco Victor Weisskopf, collega dello scienziato americano nel Progetto Manhattan.
Ormai, da quasi un decennio, dell’energia atomica si conoscevano e sviluppavano gli usi civili e industriali per la produzione di energia con le centrali nucleari – la prima fu costruita proprio negli Stati Uniti nel 1955 – e la “redenzione” forse sarebbe potuta arrivare grazie a questi usi pacifici del nucleare, pur con tutti i rischi che ex post ben conosciamo tra incidenti (Three Miles Island, Chernobyl, Fukushima) e teatri di guerra (l’attuale conflitto russo-ucraino).
Per Oppenheimer non vi furono altre occasioni per visitare il nostro Paese: pochi anni dopo, nel 1967, a causa di un cancro alla gola (era un forte fumatore), morì nella sua casa in New Jersey.
Riferimenti
[1] Umberto Eco, La fiamma è bella, in Costruire il nemico e altri scritti occasionali, Bompiani, Milano 2011, p. 95.
[2] Il film, “monumentale” quanto a durata, rispecchia la biografia, altrettanto monumentale, su cui è basato: Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato di Kai Bird e Martin J. Sherwin, volume pubblicato in Italia da Garzanti e vincitore del premio Pulitzer negli USA.
[3] Piero Calamandrei, Futuro postumo, Le Balze, Montepulciano 2004, a cura di Silvia Calamandrei.
[4] Fabio Pagan, Oppenheimer a Trieste per “redimere” la fisica con la creazione dell’Ictp, “Il Piccolo”, martedì 22 agosto 2023, p. 28.
Silvia Calamandrei è laureata in storia contemporanea alla Sapienza di Roma, diplomata in lingua cinese all’Ismeo e all’istituto di lingue di Pechino. Funzionaria dell’Unione europea al Comitato economico e sociale (1982-2005), come traduttrice e amministratrice nel settore ambientale, della politica agricola e della protezione dei consumatori, è curatrice delle opere di Piero Calamandrei, Franco Calamandrei e Maria Teresa Regard, oltre che traduttrice e curatrice di opere saggistiche e letterarie. Dal 2007 è Presidente della Biblioteca Archivio “Piero Calamandrei” istituzione del Comune di Montepulciano, organizzatrice di mostre e convegni archivistici e documentari sulla Cina.