Skip to main content

03 Giu 2021

La misura del benessere

Nicola Armaroli

Nicola Armaroli
Leggi gli altri articoli

Home Rubriche L'editoriale

Nei primi anni ’30, l’economista Simon Kuznets fu il motore di una serie di studi voluti dalla Casa Bianca per fornire un indice numerico che potesse indicare in modo semplice la salute economica del Paese. L’esigenza nasceva dal caos della Grande Depressione, quando la mancanza di dati e indici impedì di seguire l’andamento della febbre economica. Quando Kuznets introdusse pochi anni dopo l’indice GDP (Gross Domestic Product) – per noi PIL (Prodotto Interno Lordo) – fu il primo a mettere in guardia da un utilizzo inappropriato della sua creatura.

 

Cos’è davvero il PIL?

Si tratta infatti solo di una misura del valore dei prodotti e dei servizi generati in una nazione, che non deve essere usata per misurare il benessere sociale e persino economico di un Paese. I motivi sono ovvi, ma è utile ricordarli. Se ci sono ad esempio più incidenti stradali, il PIL cresce perché fatturano assicurazioni, carrozzieri, ospedali, centri di riabilitazione, pompe funebri e fiorai. È difficile però pensare che questo generi un progresso del benessere nazionale.
Sono passati 80 anni e la raccomandazione di Kuznets, premio Nobel per l’Economia 1971, è ancora inascoltata. Il PIL resta il parametro principe per misurare la salute di un’economia e, surrettiziamente, il benessere di una nazione.

 

HDI, GPI e GEP: gli indici alternativi al PIL

Sono stati proposti altri indici per meglio descrivere il progresso globale di un Paese – come HDI (Human Development Index) e GPI (Genuine Progress Indicator) – ma spesso restano una curiosità accademica. Interessante anche il GEP (Gross Ecosystem Product), un parametro che definisce il contributo della natura all’attività economica. È stato applicato alla regione cinese del Qinghai, dove nascono Mekong, Yangtze e Fiume Giallo, tre corsi d’acqua che tengono letteralmente in vita miliardi di persone. Solo recentemente il PIL del Qinghai ha superato il suo altissimo GEP. Se in futuro la forbice dovesse aumentare, potrebbe essere la spia di un impoverimento delle risorse naturali, che metterebbe a rischio la crescita economica di quell’immenso bacino nel lungo termine. In pratica: addio PIL.

 

 

banner abbonamento articoli

 

 

Recovery Fund: riusciremo nell’impresa?

Il mondo sta cambiando rapidamente e dobbiamo misurarlo meglio. Il PIL globale continua a crescere, ma le disuguaglianze tra le nazioni e all’interno dei singoli Stati aumentano. La disparità nell’accesso ai vaccini è l’ultima chiamata per prendere atto che non è più sufficiente essere ricchi per sentirsi al sicuro. È utile misurare il PIL, ma solo se misuriamo anche l’aumento o la diminuzione delle risorse naturali, un migliore o un peggiore accesso all’istruzione, una maggiore o inferiore coesione sociale. E tanto altro.
Da mesi discutiamo di Recovery Fund. Il piano inviato di recente a Bruxelles è solo il quadro generale di riferimento. Ora dobbiamo decidere quali progetti realizzare e quali scartare. Occorre soprattutto scegliere – adesso – le opere che miglioreranno davvero il benessere dei nostri figli e nipoti, perché il piano avrebbe esattamente questo scopo e non altri. Purtroppo sinora la discussione è piuttosto deludente: trionfano sui media economisti e opinion maker che snocciolano con entusiasmo previsioni di aumento del PIL fra 1, 5 o 10 anni, grazie ai fondi investiti. Anche il governo non si è mostrato particolarmente originale nel tentare di suggerire, almeno in questa occasione, metriche o prospettive diverse.
La montagna di soldi che ci apprestiamo a spendere è per il 65% un prestito e, in gran parte, saranno figli e nipoti a doverlo onorare. Riusciremo, al termine di questa impresa, a risparmiare loro la beffa di un’Italia forse più ricca di PIL, ma più povera di tutto il resto?
Nei prossimi mesi aiuterà ricordare quanto disse Bob Kennedy nel 1968, solo tre mesi prima di essere assassinato: «Il PIL misura tutto, eccetto quello che rende la vita veramente degna di essere vissuta».

Nicola Armaroli
Nicola Armaroli
Nicola Armaroli, direttore di Sapere dal 2014, è dirigente di ricerca del CNR e membro della Accademia Nazionale delle Scienze (detta dei 40). Lavora nel campo della conversione dell’energia solare e dei materiali luminescenti e studia i sistemi energetici nello loro complessità. Ha pubblicato oltre 250 lavori scientifici, 11 libri e decine di contributi su libri e riviste. Ha tenuto conferenze in università, centri di ricerca e congressi in tutto il mondo ed è consulente di varie agenzie e società internazionali, pubbliche e private, nel campo dell’energia e delle risorse. Ha ottenuto vari riconoscimenti tra cui la Medaglia d’Oro Enzo Tiezzi della Società Chimica Italiana e il Premio per la Chimica Ravani-Pellati della Accademia delle Scienze di Torino. È un protagonista del dibattito scientifico sulla transizione energetica su tutti i mezzi di comunicazione (v. qui).
DELLO STESSO AUTORE

© 2024 Edizioni Dedalo. Tutti i diritti riservati. P.IVA 02507120729