Che la superficie terrestre sia divisa in placche i cui movimenti causano i terremoti è una nozione nota a tutti dai tempi della scuola. Meno noto, e dibattuto anche dai ricercatori, è il motore che fa divergere e collidere queste placche. Due visioni alternative si sono confrontate. A risolvere definitivamente il dilemma potrebbe essere uno degli esperimenti più ambiziosi mai realizzati.
Che la superficie terrestre sia divisa in placche i cui movimenti causano i terremoti è una nozione nota a tutti dai tempi della scuola. Meno noto, e dibattuto anche dai ricercatori, è il motore che fa divergere e collidere queste placche.
Due visioni alternative si sono confrontate: la prima prevede che le zolle poggino direttamente su celle convettive del mantello, dove il calore del nucleo porta moti ascendenti da un lato e il materiale raffreddato scende dall’altro; la seconda propone un equilibrio tra le forze che spingono le zolle a separasi nelle dorsali oceaniche e quelle che le tirano dove affondano nei margini di subduzione. A risolvere definitivamente il dilemma potrebbe essere uno degli esperimenti geologici più ambiziosi mai realizzati.
Che cosa fa muovere le placche?
In Nuova Zelanda, un migliaio di sismometri è stato posizionato lungo una linea di oltre 100 chilometri. In una dozzina di fori nel terreno, profondi decine di metri, sono stati posizionati 500 chilogrammi di esplosivo. Le onde generate dagli scoppi si sono propagate nelle crosta terreste e i loro riverberi sono stati registrati dagli strumenti in superficie.
Si è trattato dell’applicazione dei principi delle linee sismiche (che vengono comunemente utilizzate per la prospezione dei primi chilometri di profondità) a una scala mai tentata prima.
La conoscenza esatta della posizione di ricevitori e sorgenti ha permesso di ottenere dettagli tomografici che non si possono ricavare registrando le onde sismiche, la cui sorgente non è mai nota con sufficiente precisione. Il gruppo di ricercatori della Victoria University di Wellington, capeggiato da Tim Stern, ha appena pubblicato i risultati dello studio sulla rivista Nature: alla base della crosta si trova uno strato spesso pochi chilometri di rocce a bassa resistenza che costituisce una zona di facile scivolamento. La crosta non sarebbe quindi direttamente collegata alle celle convettive del mantello, ma la spinta che queste esercitano tramite il materiale che fuoriesce dalle dorsali oceaniche permette alle placche di muoversi con poco sforzo sulla zona di scivolamento appena individuata.
Le conseguenze sulla pericolosità sismica
Questa scoperta avrà notevoli ripercussioni sullo studio della pericolosità sismica, perché smonta un’assunzione fondamentale, ovvero la costanza dell’accumulo degli sforzi che causa i terremoti nei margini di collisione delle placche. Se queste possono scivolare più liberamente, riacquista senso la proposta fatta negli anni ’70 da Don Anderson del CalTech circa la accelerated plate tectonics che prevedeva momenti di stasi che si alternano a momenti di maggiore attività su diversi margini di una placca. Questo porterebbe a comprendere perché ci siano momenti di maggiore o minore attività sismica rispetto alla media e anche correlazioni a distanza tra zone sismiche (di una possibile correlazione tra i terremoti dei margini alpino e appenninico della Pianura Padana avevamo parlato in un precedente articolo di questa rubrica).
[Immagine: credit Tim Stern]