Si conclude il nostro viaggio nella “poetica” figurativa e geometrica di Oscar Reutersvärd.
Questo genere di questione (vedi parte prima) non è un fatto nuovo: il pittore William Hogart (1697-1774), per esempio, deve la sua fama essenzialmente a trucchi prospettici. Famoso è quello nel quale lenze di pescatori e saluti tra amanti rendono paradossale la scena, quando si cerca, con il cervello, di aggiustare quel che l’occhio da solo non può.
La prospettiva giapponese
I lavori di Reutersvärd sono invece basati su un trucco prospettico che si usa chiamare “prospettiva giapponese” e che consiste essenzialmente in questo: un oggetto, o una serie di oggetti, vengono visti contemporaneamente in più prospettive (almeno 2, a volte 3) sotto direzioni (punti di vista) diverse, ma in modo tale che vi sia una “saldatura” tra le figure risultanti, in una soluzione generale che non può esistere, e che è realisticamente assurda.
Se prendiamo la prima opera di Reutersvärd (“Opus 1”, 1934):
e numeriamo i “cubi” che la costituiscono:
il processo è chiaro: se si osservano i soli “cubi” da 1 a 7 (escludendo 8 e 9), la prospettiva è corretta, e ha come direzione quella da sinistra a destra di chi guarda; se si osservano i cubi da 4 a 1 (escludendo solo 2 e 3), la prospettiva è ancora corretta, ma ha come direzione quella da destra a sinistra di chi guarda; si può procedere anche eliminando 5 e 6, ottenendo ancora una prospettiva corretta.
Quel che cambia completamente la questione, dunque, è il tentativo di ricomporre tutte queste versioni parziali in un blocco unico, in un disegno unico: si hanno più punti di collasso, di incoerenza, che trasformano la figura localmente corretta in una globalmente impossibile.
È esattamente lo stesso “trucco” che i Penrose usarono oltre venti anni dopo:
La figura, “Tribar”, localmente coerente, diventa globalmente impossibile per gli stessi motivi detti sopra.
Se questa è la spiegazione matematica elementare della prospettiva giapponese, è anche vero che, in quasi settant’anni di lavoro, l’artista di Lund molto ha riflettuto, lavorato e creato, ricamando, sullo stesso principio, in molti modi che i suoi disegni in mostra illustrano meglio e più di quanto si potrebbe fare con qualsiasi testo.
Una nota, invece, mi pare interessante, ed è la profonda differenza con Escher.
La differenza con Escher
Mentre il Maestro Olandese sfrutta ma nasconde la prospettiva giapponese, per elaborare complesse e affascinanti messe in scena dal vago sapore surrealista, lo Svedese preferisce evitare ogni contaminazione, per quanto possibile, con il reale, assurdo o coerente che sia. Reutersvärd, a parte pochi giochi ironici (che io conosco, ma che non ho mai visto pubblicati), preferisce la purezza della figura essenziale, tutta geometrica, pulita; perfino cominciare a usare acquarelli è stato per lui uno sforzo, non troppi anni fa. Ritiene infatti che il bello estetico della sua operazione consista nella “figura impossibile” in sé, non nella magìa, che pure potrebbe facilmente far scaturire da essa, e che in qualche modo affascina in Escher.
Reutersvärd ritiene di non averne bisogno, nulla volendo concedere ad altro che non sia la pura figura. Per esempio, così come Escher, anche Reutersvärd ha trasformato alcune sue “figure impossibili” in scale, ma non ha mai sentito l’esigenza di farle percorrere (sempre verso l’alto – sempre verso il basso) da monaci o da acque in perenne discesa; si è sempre e solo limitato a suggerire implicitamente a chi sta osservando di percorrerle con l’immaginazione…
A causa di questa sottile finezza, come ho avuto modo di constatare tante volte, ci sono molte persone, di varia età, di varia cultura, che non riescono sempre a cogliere l’impossibilità… È ben noto che l’occhio umano è costretto, dalla nostra cultura ancestrale, a trasformare ciò che vede e che riconosce essere rappresentazione bidimensionale del tridimensionale, in “cosa”, in “possibile oggetto”. Se l’occhio è allenato, le figure impossibili di Reutersvärd rendono vano, impossibile, inutile questo sforzo! L’occhio cerca una ragione che non c’è, il cervello rifiuta l’immagine globale e fornisce automaticamente il motivo della impossibilità. Ma vi sono persone che, non aiutate in ciò proprio dalla mancanza di riferimenti ad altri esempi o cenni del reale, non “sentono” (non vedono, non percepiscono, come dire?) questa impossibilità e non colgono dunque dai disegni quello che di drammatico e di violento essi contengono.
È per questo che io apprezzo di più la purezza e il coraggio di Reutersvärd, rispetto alla grazia ed all’ironia di Escher.
[nell’immagine: l’artista al lavoro, in una foto tratta da galleriaroma.it]
Bibliografia
Caldarelli M. (1985). Cinquant’anni di figure impossibili. Arte e scienza, 85, 70-73.
D’Amore B. (1999). Il fascino discreto e sofisticato che la Matematica esercita su artisti, studenti ed altri illustri personaggi. Scuola Ticinese, 226, 9-14.
D’Amore B. (2014). Arte e matematica. Metafore, analogie, rappresentazioni, identità tra due mondi possibili. Bari: Dedalo.
Emmer M. (1995). L’uomo impossibile. L’Unità, 20 dicembre 1995.
Ernst B. (1985). Avonturen met onmogelijke figuren. Baarn (Olanda). Edizione del 1990: Berlin, Benedikt Taschen Verlag. [Esiste anche una edizione in lingua italiana dello stesso editore].
Gullberg J. (senza data), Mathematics, from the birth of numbers. New York, W. W. Norton & Company.
Penrose L.S & Penrose R. (1958). Impossible Objects: a special type of visual illusion. The British Journal of Psychology, 49.
Reutersvärd O. (1982). Impossible coloring book. New York: Perigee Books.
Schattschneider D. (1990). Vision of simmetry. New York: W. H. Freeman & Comp. [Edizione italiana: Bologna, Zanichelli 1992].