È da decenni che gli scienziati fanno suonare il pianoforte ai robot. Nel caso dello studio pubblicato recentemente su Science Robotics, però, il tentativo diviene più ambizioso: gli ingegneri hanno cercato di avvicinarsi quanto più possibile alla riproduzione di un arto robotico con caratteristiche dell’anatomia umana. Quali sono stati i risultati? Capiamolo insieme.
È da decenni che gli scienziati fanno suonare il pianoforte ai robot. Nel caso dello studio pubblicato recentemente su Science Robotics, però, il tentativo diviene più ambizioso: gli ingegneri hanno cercato di avvicinarsi quanto più possibile alla riproduzione di un arto robotico con caratteristiche dell’anatomia umana. Quali sono stati i risultati? Capiamolo insieme.
Il futuro dei soft robot
Nell’articolo dedicato a questa ricerca pubblicato su New York Times Science, Josie Hughes, ricercatrice presso il dipartimento di ingegneria dell’Università di Cambridge (Regno Unito) che ha guidato la realizzazione della mano robotica, ha spiegato: “Il nostro scopo è allontanarci dall’approccio tradizionale alla robotica, dove un motore genera un solo comportamento, perché ciò non si adatta”. Nella stessa direzione si sta rivolgendo in tutto il mondo la progettazione dei soft robot che, un giorno, potrebbero possedere corpi resistenti ma capaci di movimenti così sfumati da essere sfruttati per l’esplorazione naturale e la diagnosi medica.
Stampa 3D e i primi movimenti
Per muovere i primi passi lungo questo cammino, che si preannuncia non privo di ostacoli, il gruppo di ricerca di Cambridge ha progettato una mano meccanica con ossa e legamenti posizionati dove si troverebbero in un arto umano. Come hanno fatto? Hanno valutato quanto duri o soffici i diversi componenti dovessero essere: in assenza di motori, proprio queste variazioni dei livelli di flessibilità sono quelle capaci di conferire complessità al movimento, da quello più forte e potente al più leggero e delicato. In seguito la mano è stata fabbricata con un processo di stampa 3D che ha mescolato plastica più dura e gomma soffice in differenti rapporti per produrre legamenti e articolazioni con diversi gradi di rigidità. Gli scienziati hanno quindi collegato la mano a un braccio robotico, di quelli solitamente impiegati nelle linee di assemblaggio industriali.
Per poter sperimentare l’arto robotico, l’azione del suonare il pianoforte è stata scomposta in tre tipi di movimenti: il colpo di un singolo dito, il salto e lo scorrere del pollice. Quindi sono stati usati tre stralci di brani musicali per misurare le abilità del robot.
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Da uno stentato Jingle Bells a una consapevolezza artistica
La mano robotica, per ora, non padroneggia brani complessi di musica classica ma riesce a suonare differenti stili e dinamiche e a eseguire una versione piuttosto stentata di Jingle Bells. In confronto ai precedenti robot musicisti, ha mostrato flessibilità nel controllo del volume, nei movimenti del pollice e nel suonare il legato (in cui le note di una frase melodica sono accostate l’una all’altra, senza interruzioni) e lo staccato (in cui si ha una netta separazione tra le note di una data serie orizzontale). I prossimi passi saranno l’aggiunta di sensori, motori e componenti che funzionino come tendini e che aiuteranno a creare un intervallo più ampio di comportamenti. Josie Hughes spera in futuro di riuscire a conferire anche espressività alle performance, quei sentimenti che allo stato attuale sono il vero confine che divide l’essere umano dall’intelligenza artificiale.
Quando sentiamo parlare di robot, facilmente i nostri ragionamenti si focalizzano su quali siano i limiti della scienza. Se siete curiosi di capire in quale direzione stia andando la ricerca, acquistate e leggete l’articolo di Gianfranco Pacchioni, “Dove va la scienza?”, pubblicato sul numero di Sapere di agosto 2018.