Il caso di TRAPPIST-1 – così si chiama il nuovo sistema planetario scoperto di recente e balzato subito agli onori della cronaca – è esemplare nel senso che rappresenta sicuramente un bel passo in avanti nella ricerca di vita nell’Universo, ma non di più. Purtroppo per il tanto atteso annuncio bisogna ancora aspettare.
Problema: un brigantino ha una stazza di 180 tonnellate, è lungo 61 metri e largo 9, possiede una superficie velica di 1300 mq e a pieno carico raggiunge una velocità di 5 nodi. Si chiede: di che colore sono gli occhi della figlia del capitano?
Questo aneddoto circola da sempre tra i banchi della facoltà di Fisica per preparare le matricole a ciò che li aspetta. E’ una minaccia e allo stesso tempo una promessa-metafora perfetta della complessità ma anche del potere della scienza, della sua capacità di svelare i segreti della natura a partire da indizi apparentemente insignificanti, se non addirittura fuorvianti. Non fa eccezione l’annuncio della NASA sulla scoperta di 7 pianeti di tipo terrestre di cui ben 4 nella cosiddetta “regione di abitabilità” – ovvero con temperature superficiali che in linea di principio permetterebbero di sostenere la vita.
Esopianeti: chi li ha visti?
Un annuncio che ha affascinato mezzo mondo guadagnando i titoli di testa di molti giornali ma che ha anche tratto in inganno, alimentando speranze ingiustificate. Perché come per gli occhi della figlia del capitano in realtà quei pianeti nessuno li ha “visti” nel senso comune del termine. La loro esistenza è stata dedotta a partire da un diagramma che di affascinante ha ben poco: un grafico che mostra l’andamento nel tempo della luminosità di una stella. Se invece di rimanere costante è soggetta a improvvisi abbassamenti, ne si attribuisce la causa al transito di uno o più pianeti. Si tratta cioè di mini-eclissi, ben lontane dagli eccessi a cui ci ha abituato la nostra Luna, ma che hanno il medesimo effetto di oscurare, seppur lievemente, il disco stellare.
Il metodo dei transiti
Questo metodo, detto appunto “dei transiti”, è tra quelli di maggior successo per chi va a caccia di esopianeti, in genere troppo vicini al loro sole per non confondersi nella sua luce finendo per risultare indistinguibili anche dai più potenti telescopi. Certo per osservare dei transiti bisogna essere fortunati perché le orbite devono essere quasi “di taglio” rispetto alla linea di vista ma la statistica in questi casi è un potente alleato: più stelle si osservano, più alta sarà la probabilità di assistere a un transito. E di stelle non scarseggia certo il creato. Dunque gli astronomi dell’Università di Liegi e il team del telescopio spaziale “Spitzer” della NASA avevano a disposizione solo dei grafici, ma è bastato. Dalla successione delle eclissi è infatti possibile stabilire il numero di pianeti, dalla frequenza dei transiti i rispettivi periodi orbitali, dalle caratteristiche delle eclissi le dimensioni di ciascun oggetto e la eventuale presenza di un’atmosfera.
La meccanica celeste permette poi di calcolare la distanza di ciascun pianeta dal suo “sole” a partire dal periodo orbitale. Dato che le stelle possono essere classificate a seconda della loro temperatura, ecco che si hanno a disposizione tutti gli elementi necessari per “vedere” se tra quei pianeti ci siano dei potenziali “gemelli” della Terra. Ma attenzione, si tratta appunto solo di potenziali terre: da qui ad averle viste davvero, con i relativi vantaggi, c’è ancora molta strada da fare.
Potenziali terre
Il caso di TRAPPIST-1 – così si chiama il sistema planetario balzato agli onori della cronaca – è dunque esemplare nel senso che rappresenta sicuramente un bel passo in avanti nella ricerca di vita nell’universo, ma non di più. Purtroppo per il tanto atteso annuncio bisogna ancora aspettare. E allora dato che anche l’occhio (umano) vuole la sua parte si è calcolato che quei pianeti sarebbero così vicini l’un l’altro da apparire nei rispettivi cieli non come dei punti luminosi ma in tutta la loro interezza. Uno spettacolo meraviglioso che la NASA non ha mancato di rappresentare realizzando delle ricostruzioni “artistiche” di quei panorami alieni. E visto che è sempre lecito sognare, non è sfuggito alla rete che poco prima dell’annuncio è uscito un video di Lana Del Rey, pop-star emergente, i cui paesaggi fantascientifici ricordano in maniera sorprendente quelli prodotti dalla NASA. Che sia lei la famigerata figlia del capitano?
[Immagine: credit NASA]