Prima dell’era moderna, la maggior parte delle scoperte scientifiche derivava da studi empirici fatti da filosofi della natura che operavano nel chiuso dei loro laboratori. Non esistevano società scientifiche né, tantomeno, una pulsione a comunicare il risultato del proprio lavoro alla comunità dei propri pari. Molte scoperte erano tenute volontariamente nascoste, in modo da consentire allo scopritore di sfruttarne le ricadute economiche, altre venivano celate perché in odore di stregoneria e quindi passibili di condanna da parte dell’Inquisizione. Ancora all’epoca di Galileo, Newton e Huyghens, la mancanza di una comunità scientifica e di riviste specialistiche faceva sì che le scoperte venissero comunicate soprattutto attraverso sporadici scambi di corrispondenza oppure con la pubblicazione di monografie, peraltro molto costose e di difficile reperibilità.
La diffusione delle nuove idee era quindi lenta e potevano passare anni finché una notizia raggiungesse gli angoli più remoti d’Europa. Questo sistema non offriva molte garanzie agli autori delle scoperte, che correvano il serio rischio di vedersele soffiare da colleghi di pochi scrupoli che, protetti dalla distanza, potevano fraudolentemente attribuirsene il merito.
La situazione era particolarmente difficile quando lo scopritore di un nuovo fenomeno o di una nuova legge fisica, pur senza essere pienamente convinto di ciò che aveva trovato, voleva assicurarsene la priorità senza però compromettersi troppo. In condizioni analoghe oggi si inizierebbe con il presentare lo studio a un congresso e con il pubblicare i risultati preliminari negli atti dello stesso. Ma all’epoca non era possibile e, quindi, divenne pratica comune comunicare le scoperte più importanti o controverse tramite anagrammi o pseudoanagrammi: si riassumeva il risultato in una breve frase e poi se ne mescolavano a caso le lettere producendo una stringa inintellegibile di caratteri che poi si inviava per lettera a uno o più corrispondenti, avvertendoli che in quel guazzabuglio era nascosto un segreto di cui di lì a poco si sarebbe inviata la soluzione.
Saturno e i tre corpi
Per esempio, quando il grande fisico Robert Hooke nel 1676 scoprì la legge che ancora oggi porta il suo nome e che descrive la deformazione elastica dei corpi, Hooke la comunicò agli amici usando l’anagramma “ceiiinossssttuv” che, celava, la ben più esplicativa frase latina “ut tensio sic vis” (Tale la tensione, così la forza).
Uno dei più assidui praticanti di questa tecnica fu Galileo Galilei, sempre molto attento a ottenere il massimo possibile riconoscimento per le sue scoperte. Dopo avere pubblicato il Sidereus Nuncius (1609) in cui annunciava al mondo i risultati delle sue prime osservazioni con il telescopio, Galileo continuò a utilizzare il suo rudimentale strumento per esplorare i cieli e, il 30 luglio 1610, dopo avere compiuto una serie prolungata di osservazioni di Saturno, inviò al politico fiorentino Belisario Vinta la notizia di avere scoperto una “stravagantissima meraviglia” che per il momento preferiva celare in un anagramma: “smaismrmilmepoetaleumibunenugttauiras”. Tramite Giuliano de’ Medici fece anche giungere la notizia a Keplero che, essendo un grande ammiratore dello scienziato pisano, cercò di decifrarlo e trovò una soluzione in “Salve umbistineum geminatum Martia proles” che tradotto significava: “Salve doppia sporgente prole di Marte” e ne concluse che Galileo doveva avere scoperto due satelliti di Marte.
Il vero significato era, invece, “Altissimum planetam tergeminum observavi” (che tradotto dal latino significava: “ho osservato il pianeta più alto, cioè Saturno, essere trigemino” – cioè formato da tre corpi): Galileo infatti, nel guardare Saturno attraverso il suo modesto cannocchiale, non aveva potuto riconoscere gli anelli ma aveva notato due rigonfiamenti che lo avevano indotto a ritenere Saturno formato da tre corpi con quello centrale circa tre volte più grande degli altri. Dell’uso che fece Rubens di questa scoperta si è già detto in un precedente articolo e quindi ritorniamo all’interpretazione che ne diede Keplero.
Gli anelli di Saturno
Oggi sappiamo che Marte ha davvero due satelliti (Phobos e Deimos) che però erano assolutamente impossibili da vedere con il piccolo telescopio di Galileo. Essi furono scoperti solo nel 1877 dall’astronomo americano Asaph Hall, usando un rifrattore di ben 66 cm di diametro e di grande qualità ottica. L’interpretazione errata di Keplero, dunque, fu solo una fortunata coincidenza che al grande astronomo tedesco parve però suffragata da considerazioni di simmetria. In quegli anni, infatti, si sapeva che Mercurio e Venere non avevano satelliti, che la Terra ne aveva uno (la Luna) e che Giove ne aveva quattro (i satelliti Medicei scoperti da Galilei nel 1609). Marte, che si trova tra il nostro pianeta e Giove doveva quindi averne due.
Non sorprende quindi che anche dopo che Galilei aveva rivelato il vero significato del suo anagramma, la convinzione che Marte avesse due satelliti continuò a essere molto diffusa. Perfino Jonathan Swift nei suoi viaggi di Gulliver (scritti nel 1726), fece dire ai saggi astronomi dell’isola volante di Laputa “…Hanno pure scoperto due stelle minori, o satelliti, che girano intorno a Marte, dei quali il più vicino dista dal centro del pianeta principale esattamente tre volte il suo diametro, e il più lontano cinque. Il primo compie il suo giro in 10 ore, il secondo i 21 e mezzo, cosi che i quadrati dei loro tempi periodici sono quasi nella stessa proporzione con i cubi delle loro distanze dal centro di Marte, cosa che mostra chiaramente come siano governati da quella stessa legge di gravitazione che agisce sugli altri corpi celesti” . Una predizione non troppo lontana dal vero.
Come si sa, la vera natura dell’oggetto tri-corporeo osservato da Galilei fu rivelata solo nel 1655 dal fisico olandese Christian Huyghens, che utilizzando un telescopio di sua costruzione riuscì a riconoscere gli anelli. La cosa era però talmente sorprendente che anche lui preferì cautelarsi dietro l’ambiguità di un anagramma: “aaaaaaa ccccc d eeeee g h iiiiiii llll mm nnnnnnnnn oooo pp q rr s ttttt uuuu” che, propriamente riordinato, diveniva: “Anulo cingitur tenui, nusquam cohaerente, ad eclipticam inclinato” ossia “un tenue anello lo circonda senza toccarlo e inclinato rispetto all’eclittica”.
Le fasi di Venere
Un altro famoso anagramma di Galilei riguardò la scoperta delle fasi di Venere, invisibili a occhio nudo ma facilmente riconoscibili all’osservazione telescopica. In una lettera dell’11 dicembre 1610 a Giuliano de’ Medici, Galilei scrisse: “Haec immatura a me iam frustra leguntur oy” che, letteralmente si traduceva in “Queste cose immature sono da me raccolte invano”. Il vero significato, che il pisano avrebbe rivelato solo alcuni mesi dopo, era però: “Cynthiae figuras aemulatur mater amorum” (tradotto: “La madre degli amori [Venere], imita le figure di Cinthia [la Luna]”). E’ divertente notare che anche in questo caso, Keplero azzardò un’interpretazione che, pur non essendo quella giusta, prediceva una scoperta che sarebbe stata effettuata oltre un secolo dopo.
Secondo Keplero, infatti, l’anagramma poteva essere decifrato in “Macula rufa in Iove est giratur mathem etc.” (“Una macchia rossa su Giove, che ruota matematicamente”). Ma la famosa macchia rossa di Giove, manifestazione di un uragano di proporzioni ciclopiche in atto sulla superficie del pianeta sarebbe stata effettivamente scoperta da Cassini solo mezzo secolo dopo, nel 1655.