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16 Set 2019

I Denisoviani e quel mignolo rivelatore

Alessia Colaianni

Alessia Colaianni
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La grotta di Denisova, in Russia, sui monti Altai, non smette di sorprenderci con i suoi fossili. È il sito in cui sono stati rinvenuti i resti appartenenti ai Denisoviani, un gruppo di ominini differente dai Neanderthal, e in cui probabilmente le due specie hanno convissuto e hanno anche creato coppie, dando vita al primo ibrido tra due antichi umani, Denny. Ma quel piccolo osso che conservava il DNA di questi ominini, quella falange del dito mignolo, ha ancora qualcosa da raccontarci.

La grotta di Denisova, in Russia, sui monti Altai, non smette di sorprenderci con i suoi fossili. È il sito in cui sono stati rinvenuti i resti appartenenti ai Denisoviani, un gruppo di ominini differente dai Neanderthal, e in cui probabilmente le due specie hanno convissuto e hanno anche creato coppie, dando vita al primo ibrido tra due antichi umani, Denny. Ma quel piccolo osso che conservava il DNA di questi ominini, quella falange del dito mignolo, ha ancora qualcosa da raccontarci.

 

La prima parte della storia si sovrappone a quello che, più o meno, già conosciamo: era il 2008 e nel sud della Siberia, ai piedi dei monti Altai, una squadra di archeologi russi si stava occupando dello scavo della grotta di Denisova e vi aveva trovato l’osso di un dito di un gruppo di antichi uomini. Per capire cosa realmente avessero tra le mani avevano bisogno dell’analisi del DNA e, quindi, decisero di dividere la falange in due e spedirla a due differenti laboratori. Un parte giunse a Svante Pääbo, genetista evolutivo del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology a Leipzig, in Germania. Fu proprio quel frammento ad aprire le porte alla scoperta, permettendo agli scienziati di pubblicare l’articolo in cui si afferma di aver identificato un nuovo ominine, l’Uomo di Denisova, parente più vicino ai Neanderthal che ai Sapiens, vissuto nella caverna siberiana – e probabilmente in Asia – più di 30.000 anni fa.

 

E l’altra metà? Che fine aveva fatto? Ufficialmente era arrivata a Edward Rubin, un genetista che al momento della spedizione lavorava nel Lawrence Berkeley National Laboratory, in California, e che nel 2010 inviò il piccolo osso a Eva-Maria Geigl, paleogenetista dell’Institute Jacques Monod di Parigi. Anche Geigl cercò di esaminare il DNA dell’osso ma non ebbe successo. Rubin, nel 2011, richiese indietro il pezzo e la ricercatrice glielo restituì non prima di prelevare un altro campione di materiale genetico e di scattare alcune fotografie dettagliate.

 

Denisova Mignolo

 

Ricostruzione virtuale della quinta falange distale ritrovata nella grotto di Denisova. © Foto del frammento distale della falange: Eva-Maria Geigl, Institut Jacques Monod (CNRS / Université de Paris). Scansione Micro-CT e ricostruzione virtuale: Bence Viola, Department of Anthropology, University of Toronto (Canada).

 

Nel 2016 Geigl decise finalmente di pubblicare i dati ricavati, non il DNA nucleare che sperava ma quello mitocondriale, che corrispondeva alla sequenza pubblicata da Pääbo nel 2010. Un conferma dei risultati ottenuti sui Denisoviani, un bel successo e un passo fondamentale verso la comprensione dell’evoluzione dell’uomo. Non è finita qui: grazie alle fotografie scattate e alla ricostruzione 3D della parte mancante, gli scienziati hanno confrontato il frammento con le falangi dei Neanderthal e degli uomini moderni, mostrando che il mignolo denisoviano era più simile a quello dei Sapiens. Probabilmente noi e quegli ominini siberiani abbiamo in comune qualcosa di importante e inaspettato: le mani. Una somiglianza che però non si ritrova molari e mandibola che hanno un aspetto molto più arcaico. I Denisoviani sono quindi un interessante mosaico di caratteristiche arcaiche e moderne, ancora tutto da capire attraverso nuovi fossili e analisi, che speriamo arriveranno presto.

 

Vi chiederete dove sia ora il secondo frammento, quello restituito da Geigl. Sembra che Rubin, nel 2011 o 2012, abbia spedito il campione a Eske Willerslev, del laboratorio di DNA antico dell’Università di Copenhagen e del Natural History Museum della Danimarca. Entrambi gli scienziati non rispondono alla richiesta di chiarimenti e commenti della redazione di Nature, che ha ricostruito la storia. Quell’ossicino sarà ancora recuperabile e analizzabile? Per ora non è dato saperlo.

 

Credits immagine: foto di Min An da Pexels

Alessia Colaianni
Alessia Colaianni
Giornalista pubblicista, si è laureata in Scienza e Tecnologia per la Diagnostica e Conservazione dei Beni Culturali e ha un dottorato in Geomorfologia e Dinamica Ambientale. Divulga in tutte le forme possibili e, quando può, insegna.
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