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07 Mag 2018

I funghi che “illuminarono” la preistoria

Alessia Colaianni

Alessia Colaianni
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Sentir parlare di funghi ci riporta alla mente risotti impreziositi dai profumati porcini, colorati veleni come l’Amanita muscaria o droghe psichedeliche ricavate dai principi attivi contenuti da individui del genere Psilocybe. Questi strani organismi, tanto particolari da meritare un regno a parte nella classificazione degli esseri viventi, sono da sempre stati utilizzati dagli uomini che, sin dalla preistoria, erano consapevoli delle loro innumerevoli proprietà. Vi è però un’applicazione poco conosciuta di cui ci parla un recente studio pubblicato su PlosOne: erano stoppini, esche per accendere il fuoco.

Sentir parlare di funghi ci riporta alla mente risotti impreziositi dai profumati porcini, colorati veleni come l’Amanita muscaria o droghe psichedeliche ricavate dai principi attivi contenuti da individui del genere Psilocybe. Questi strani organismi, tanto particolari da meritare un regno a parte nella classificazione degli esseri viventi, sono da sempre stati utilizzati dagli uomini che, sin dalla preistoria, erano consapevoli delle loro innumerevoli proprietà. Vi è però un’applicazione poco conosciuta di cui ci parla un recente studio pubblicato su PlosOne: erano stoppini, esche per accendere il fuoco.

 

L’etnomicologia, una branca dell’etnobotanica, è la scienza che studia come gli uomini abbiano utilizzato i funghi nella loro lunga storia: sono stati cibo, medicina, ingredienti per rituali o impiegati per fabbricare manufatti. E, come testimoniano anche gli oggetti ritrovati insieme ai resti di Ötzi, l’Uomo di Similaun, alcune specie (in questo caso Fomes fomentarius e Piptoporus betulinus) erano adatte a gestire (accendere o trasportare) il fuoco. Un compito estremamente importante: con il fuoco ci si riscaldava, si cucinava, ci si proteggeva dagli animali pericolosi. Come venivano adoperati i funghi per questo scopo? Solo alcune specie di funghi polipori (famiglia Polyporaceae), dalla struttura legnosa, mostravano di essere altamente infiammabili, in grado di far attecchire la scintilla prodotta colpendo un minerale ricco in solfuro di ferro (come la pirite o la marcasite) con una selce.

 

Ma se i funghi sono stati così presenti nella quotidianità degli uomini perché non se ne trovano tracce più frequenti nei siti archeologici? Spesso non riflettiamo sul fatto che ciò che arriva a noi è ciò che resiste al disfacimento dovuto alle alterazioni fisiche, chimiche e biologiche in migliaia di anni: ossa e ceramiche non si decompongono come materiali organici quali pelle, avanzi di cibo, piume, foglie o funghi. Questa tipologia di materiali ha la possibilità di preservarsi solo se conservata in un ambiente anossico, con bassissime percentuali di ossigeno. E questo è accaduto nel sito neolitico di La Draga (risalente a circa 7300 anni fa), nel nord-est della Spagna, in cui parte dei ritrovamenti giacevano sott’acqua, al di sotto del livello freatico (altezza fino a cui si innalza uno strato acquifero formato dalle piogge che attraversano il terreno e si accumulano su un fondo impermeabile).

 

GanodermaAdspersum LaDaga Spagna

 

Campione di Ganoderma adspersum con segni di carbonizzazione. Credits: il gruppo di ricerca di La Draga

 

Questa situazione di eccezione ha permesso agli studiosi di analizzare e identificare ben 86 individui, alcuni completi, verificando la presenza di 6 specie diverse: Skeletocutis nivea, Coriolopsis gallica, Daedalea quercina, Daldinia concentrica, Ganoderma adspersum e Lenzites warnieri. La maggior parte di questi funghi appartiene alla famiglia Polyporaceae, organismi che possono crescere su alberi morti o su quelli in vita instaurando una forma di parassitismo. Non sono commestibili ma, come abbiamo accennato, sono ottimi “stoppini” per il fuoco. Gli scienziati hanno teorizzato che, effettivamente, questi funghi venissero raccolti negli ambienti circostanti l’insediamento proprio per divenire esche per l’accensione dei fuochi. Questa ipotesi è stata avvalorata dalle prove osservate quali tracce di carbonizzazione, dimensione degli individui compatibile con l’uso e il loro ritrovamento in spazi precisi del sito che potremmo definire delle zone di accumulo e conservazione di questi funghi.

 

L’etnomicologia ci permette di dare uno sguardo alla vita del passato ma, soprattutto, ci può far riflettere sul rapporto di conoscenza, rispetto e dipendenza che lega l’uomo alla natura. Quella relazione profonda che stiamo trascurando giorno dopo giorno e a cui, invece, dovremmo dedicare tutta la cura possibile.

 

Immagine di copertina: Fomes fomentarius Credits: Iwan Gabovitch su Flickr (CC BY 2.0)

Alessia Colaianni
Alessia Colaianni
Giornalista pubblicista, si è laureata in Scienza e Tecnologia per la Diagnostica e Conservazione dei Beni Culturali e ha un dottorato in Geomorfologia e Dinamica Ambientale. Divulga in tutte le forme possibili e, quando può, insegna.
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